Mentre aspettiamo l’annunciato seguito di Sesso, bugie e videotapes, sceneggiato da Steven Soderbergh in piena pandemia, sospettiamo che sarà una delle poche pellicole della sua eclettica filmografia a non avere come soggetto l’iniqua distribuzione della ricchezza. Apertamente dichiarato o mantenuto laterale, nei toni della commedia o del dramma sociale, il tema del suo cinema, dopo più di quaranta film diretti in circa trent’anni, è a pieno titolo l’anticapitalismo: classi, soldi, mani invisibili e ingiustizia.
In No Sudden Move, uscito direttamente su piattaforma, Soderbergh si sposta, su sceneggiatura di Ed Solomon, nella Detroit del 1955, e accoglie nella sua abituale analisi delle origini del male economico altri temi forti: integrazione razziale, ruolo della donna, confronto fra epoche. Se per il presente dei recenti Panama Papers e Lasciali parlare aveva insistito su fotografia piatta e ritmi stranianti, il suo sguardo al gangster movie di No Sudden Move va all’opposto di quelle scelte di stile, benché sia sempre lui, come nei precedenti, a curarne la fotografia dietro lo pseudonimo di Peter Andrews (nome di suo padre) e il montaggio dietro quello di Mary Ann Bernard (nome di sua madre).
Fotografa Detroit con raffinati filtri blu e gialli, profondità di campo e inquadrature dai bordi stondati e sfocati, allungamenti delle figure umane, sofisticati movimenti di macchina e suggestivi ralenti. Scandisce il progredire della storia con un montaggio ineluttabile e teso, in una confezione elegiaca dai costumi e dalle scenografie magnifici, debitori dell’ispirazione depalmiana de Gli intoccabili.
L’intreccio, complicatissimo, parte da tre malviventi assoldati per sorvegliare, mascherati e armati, la famiglia di un impiegato della General Motors per il tempo necessario a farsi consegnare da lui un importante documento della casa automobilistica, per procedere a spirale fra taglie, libri mastri e valore crescente del fascicolo, su livelli sempre più alti della catena di comando, di cui i tre scoprono di non conoscere, di fatto, nulla. Gestione del sapere e del potere, quando ancora le due cose coincidevano, portano due della banda, Ronald e Curt, letteralmente al vertice della piramide che li ha mossi, appena uno scalino sotto a Dio (o sopra a Satana).
E noi a constatare con loro che il lavoro, anche quello sporco svolto agli Inferi, è sempre stato -ieri, oggi e domani- scientemente sottopagato rispetto al suo reale valore. A cambiare, forse, di epoca in epoca, è solo il livello di consapevolezza a cui chi quel lavoro lo presta subisce le regole di un gioco eterno congegnato per essere al riparo da ogni lecito o illecito azzardo che provi a sovvertirlo o anche solo a muoverlo.
Straordinario che ad enunciarlo sia proprio quel Matt Damon, nel ruolo del magnate Lowen, che fu la voce narrante in Inside Job di un’altra rivelazione cruciale, quella dell’opera della finanza speculativa che innescò la crisi del 2008 e la vittoria dei responsabili del collasso, ai danni dei più. Nel ’55, a Detroit, negli USA e nel mondo, ci dice Soderbergh, quando la merce erano brevetti di nuove marmitte e il reato cartelli protezionistici dei grandi produttori di macchine, la giustizia aveva ancora modo di trovare spiragli, e far incamminare le persone verso i loro piccoli progetti di vita.
I tempi aggiornati ai Panama Papers chiudono la prospettiva, con buona pace di un paio di battute memorabili di No Sudden Move che tuttavia disegnano le sbarre della prigione borghese delle “revolutionary roads” degli anni ’50. Provengono entrambe dalla famiglia Wertz, presa in ostaggio ad inizio film, con il marcio Matt che esclama a pericolo scampato “è solo martedì!” e sua moglie Mary, umiliata e inquieta, che chiede all’amica “ma tu come fai a vivere così?”.
Nostalgia e dubbio per Soderbergh, del cui progetto-cinema socialista attendiamo il prossimo passo.