Sarà che dopo un anno di pandemia si è portati ad avvicinarsi a ogni nuovo film, come a ogni nuova storia, alla luce della lunga stressante prova che il mondo sta vivendo, ma Nomadland davvero approda nelle sale finalmente riaperte come un’istantanea di dove stavano andando gli Stati Uniti un attimo prima di fare ingresso nell’era Covid, e di come i più saranno costretti a ripartire a tempesta finita. Il fatto che poi la pellicola sia fresca vincitrice dei tre Oscar principali - film, regia e interprete protagonista - favorisce ulteriormente questa lettura.
Come se l’Academy con i suoi premi e Joe Biden con le sue parole programmatiche a sostegno del ceto medio arrivate pochi giorni dopo abbiano voluto indicare, riconoscendoli, i grandi temi dei prossimi anni: povertà, nuova organizzazione del lavoro, ambiente. A ben vedere, e come spesso accade, i germogli di questa prospettiva erano già percepibili nel modo in cui agli Oscar dello scorso anno un film come Parasite, con la sua lotta di classe e il suo discorso gramsciano sulla progettualità di vita dei subalterni, strapazzò o quasi tutti i suoi concorrenti.
Tuttavia, il difetto di Nomadland sembra essere quello di mancare proprio di un respiro politico a fare da sfondo forte alla storia personale di Fern, la sua protagonista. Sessant’anni, gli ultimi decenni dei quali passati con il marito ad Empire, cittadina sperduta del Nevada, Fern resta vedova, lascia casa e parte sola nel suo furgone attrezzato a camper, in coincidenza con la dismissione materiale e postale di Empire, che muore assieme alla sua fabbrica di cartongesso. Torna nomade, zingara, come lo era prima di fermarsi con l’amato marito dopo averlo sposato, e senza dimora e lavoro fissi per scelta.
Il suo lutto è sulla strada con lei, nel volto segnato, negli abiti sciatti, nella doccia dopo una giornata a pulire latrine e negli incontri con altri girovaghi, wanderers alla Johnny Cash, feriti e come lei in cerca di pace e tempo molto più che di riscatto. E naturalmente è nel deserto statunitense, vasto e silenzioso, ripreso al tramonto in lunghe sequenze contemplative, e abitato anche da giovani randagi, restii ad omologarsi a modelli di vita da integrati, sempre più traballanti e non solo ai loro occhi.
Lavori insignificanti quelli svolti da Fern, utili alla sopravvivenza ed estranei a qualsiasi realizzazione di sé e del sé, consegnata invece in blocco ad incontri estemporanei: con chi è prossimo alla morte e argomenta la sua idea di completezza nel rapporto con la natura; con chi la morte l’ha cercata, travolto dalla crisi economica, ma all’ultimo l’ha respinta; con chi convive con quella di un figlio o con chi abbraccia una nuova vita, quella di un nipote in arrivo, ed offre a Fern un’alternativa stabile, inadatta a lei.
Per quanto sensibile e genuinamente umana, la mano di Chloé Zhao non riesce a essere davvero inedita, a restare. Si dirà: ma è così necessaria l’originalità? La risposta va cercata probabilmente nelle parole con cui l’autrice, neanche quarantenne, ha accettato i suoi Oscar, parlando a ragione di “tempi difficili”, quelli di Fern, dei nomadi che incontra e di tutti noi, e della necessità di occuparsi degli ultimi, degli emarginati e di tornare appena possibile a modelli di solidarietà e aiuto reciproco per salvarsi da qualsiasi crisi.
Traducendo forse liberamente: l’intera umanità uscirà in lutto e per lo più impoverita dall’epidemia che l’ha travolta, dovrà ridefinire significati e necessità, a metà strada fra l’irrinunciabilità di una vacanza a Ibiza per Pasqua e quella di scalare la marcia per rallentare e ribaltare lo stile di vita consumista precedente, come ci raccontano le cronache degli ultimi mesi, ma cosa farà dopo aver girovagato come Fern ed essersi confrontata con un dolore ed una povertà definitivamente svelati, che presenteranno il conto? Ecco, in Nomadland si avverte la mancanza di una risposta personale, di una visione - e sarebbero tutte legittime - che smentisca, integri o esalti in blocco il percorso sofferto della sua protagonista.