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“Nomadland” e il lutto nell’America di Biden

Sarà che dopo un anno di pandemia si è portati ad avvicinarsi a ogni nuovo film, come a ogni nuova storia, alla luce della lunga stressante prova che il mondo sta vivendo, ma Nomadland davvero approda nelle sale finalmente riaperte come un’istantanea di dove stavano andando gli Stati Uniti un attimo prima di fare ingresso nell’era Covid, e di come i più saranno costretti a ripartire a tempesta finita. Il fatto che poi la pellicola sia fresca vincitrice dei tre Oscar principali favorisce ulteriormente questa lettura. Come se l’Academy con i suoi premi abbia voluto indicare, riconoscendoli, i grandi temi dei prossimi anni: povertà, nuova organizzazione del lavoro, ambiente.

“Nomadland” tra ombra della fine e tenue speranza

Per la precisione e la spontaneità, il Leone d’Oro Nomadland è da considerarsi l’opera della maturità per Chloé Zhao, che pur mantenendo la sua impronta marcatamente estetizzante, riesce in questa occasione a smarcarsi da una scolastica concezione del dramma. Sprazzi di realtà in presa diretta, che sfociano talvolta in un atteggiamento quasi documentaristico, si alternano alla maestosa imponenza di un’America ampia e spoglia come raramente la si è potuta ammirare nelle produzioni d’oltreoceano. I primi piani della protagonista fanno da contrappunto a campi lunghi in cui il suo corpo viene ridotto ad una minuscola sagoma sovrastata dalle tinte crepuscolari degli immensi paesaggi. E malgrado l’ombra di una fine inevitabile incomba minacciosa su ogni sequenza, Nomadland riesce a conservare una sfumatura di tenue speranza.