“I’ll see you down the road”
Questa è la frase con cui il Leone d'Oro 2020 Nomadland di Chloé Zhao si congeda dallo spettatore dopo un viaggio di oltre un anno tra i deserti e gli altopiani degli Stati Uniti occidentali. Un film che l’autrice cinese dedica a tutti coloro che hanno perso qualcuno nella loro vita. Un’opera itinerante, incentrata sulla necessità di una costante ricerca di un rinnovamento fisico e psicologico da parte di individui che hanno visto recisi i loro più stretti legami con il mondo. Un inno solenne al potere lenitivo della solitudine, unica compagna di viaggio possibile per chi vaga senza una meta definita, muovendosi non alla ricerca di qualcosa ma solamente spinto dal desiderio di lasciarsi alle spalle quanto subito. Zhao si affianca ad una comunità di nomadi contemporanei, utilizzando le loro reali esperienze come scheletro di una trama rarefatta, orientata più alla raffigurazione di uno stato emotivo in bilico perenne tra malinconia ed euforia, piuttosto che alla tessitura di un arco netto e compiuto. Lo strumento attraverso cui sondare questo terreno etereo è il personaggio di Fern, in cui Frances McDormand riversa sé stessa senza filtrare le reazioni spontaneamente generate dal confronto con persone realmente dedite a quello stile di vita e qui portate in scena come testimoni delle loro stesse esperienze.
Nomadland attacca come un dramma sociale sulle difficoltà economiche che affliggono l’entroterra americano, più simile al recente Ken Loach che non ad Into the Wild, per poi ampliare il proprio raggio d’azione fino ad inglobare tematiche impalpabili che richiedono il tono poetico e contemplativo da cui il film si lascia gradualmente pervadere. Fern non è costretta a spostarsi a causa della carenza di impieghi stabili, come saremmo portati a credere in un primo momento, ma perché la sua anima mutilata non le consente di potersi insediare in modo stabile in un singolo luogo senza venire soffocata dall’opprimente ricordo della vita passata. Il che non significa necessariamente fuggire, quanto più ricercare un moto perenne che possa consentirle di mantenere la propria vita in equilibrio. E sulla strada Fern, oltre alla forza di bastare a sé stessa, trova delle presenze in grado di comprendere il suo stato di incompletezza e con le quali condividere fugaci attimi di vita, alleviando brevemente il peso del proprio pesante fardello per poi rimettersi in cammino, con la consapevolezza ultima che nessun rapporto affettivo può essere totalmente annichilito dalla distanza. In questo limbo nel quale forze opposte si intrecciano e convivono, Fern vede rigenerato il senso della propria esistenza, la via per un’accettazione che le consentirà di andare avanti senza però dover negare ciò che risiede nel suo passato.
Per la precisione e la spontaneità con cui tali aspetti vengono adattati al linguaggio cinematografico, Nomadland è da considerarsi l’opera della maturità per Chloé Zhao, che pur mantenendo la sua impronta marcatamente estetizzante, riesce in questa occasione a smarcarsi da una scolastica concezione del dramma. Sprazzi di realtà in presa diretta, che sfociano talvolta in un atteggiamento quasi documentaristico, si alternano alla maestosa imponenza di un’America ampia e spoglia come raramente la si è potuta ammirare nelle produzioni d’oltreoceano. I primi piani della protagonista fanno da contrappunto a campi lunghi in cui il suo corpo viene ridotto ad una minuscola sagoma sovrastata dalle tinte crepuscolari degli immensi paesaggi. E malgrado l’ombra di una fine inevitabile incomba minacciosa su ogni sequenza, Nomadland riesce a conservare una sfumatura di tenue speranza, manifestata anche dalla scelta di non abbandonarsi ad una conclusione convenzionale, ribadendo che per quanto difficoltoso e sfiancante ogni viaggio intrapreso merita di proseguire.