“L’Algeria è un’enorme sala d’aspetto, aspettiamo tutti qualcosa: un lavoro, una casa, medicine, una telefonata, un colpo di fulmine”. La citazione scritta ne fa un elenco, ma la scena di Non conosci Papicha in cui sentiamo queste parole attribuisce con attenzione quei desideri ad ognuna delle ragazze che li esprimono. Nedjma, Wassila, Samira e Kahina, studentesse ventenni all’università di Algeri, confrontano ambizioni e speranze per il futuro che le aspetta ovunque possono: in sala mensa, nei bagni delle discoteche in cui scappano evadendo nottetempo dai dormitori dell’università, su una spiaggia prima di tuffarsi in mare o su una terrazza prestata ad una partita di calcio, sotto la pioggia.

Mentre sul finire degli anni ’90 Algeri è teatro di pesanti rigurgiti di integralismo religioso e politico, la scelta di Nedjma ricade sul colpo di fulmine, quello che forse sta vivendo con Mehdi, conosciuto proprio in una nottata clandestina, fuori da una discoteca. A portarla lì il desiderio di vivere la sua età e rispondere alle restrizioni imposte dalla cultura islamica alle donne, ma anche di affermare il proprio speciale talento, confezionare abiti dalle linee attuali e femminili per sé e le amiche. Nedjma disegna modelli sul suo quaderno, taglia e cuce stoffe, acquista tessuti e perle e rivendica, nel suo incessante muoversi fra negozi, strade e mercati di Algeri, la fiducia di poter cambiare le cose, aprendo una boutique per vendere le sue creazioni a donne libere e fiere come lei. Ma gli uomini che ha intorno, dal guardiano dell’università al venditore di stoffe al ragazzo che la pedina per strada, la occupano in contrattazioni estenuanti, faticose, remano contro.

La chiamano “Papicha”, “ragazza alla moda”, invece che per nome, le incollano addosso i loro sguardi punitivi e laidi, non sopportano che studi, porti i jeans e non la hijab, provi a dare forma al proprio destino, che lei non concepisce possa essere stabilito da altri. Quando la sorella maggiore, giornalista, è vittima di una violenta aggressione, la reazione di Nedjma è di alzare l’asticella della sua lotta, organizzando con le amiche una sfilata di haik, l’ampia veste bianca tipica delle donne del Maghreb, rimodellati però secondo la sua moderna visione.

La quarantaduenne regista algerina Mounia Meddour esordisce con Non conosci Papicha nel lungometraggio di finzione, dedicato eloquentemente alla memoria di un uomo, suo padre. Presentato nel 2019 nella sezione Un Certain Regard del festival di Cannes e vincitore lo scorso febbraio del premio Cesar per la migliore opera prima, il film è liberamente ispirato a vicende che l’hanno coinvolta direttamente, alle quali rivolge uno sguardo deciso, oltre che partecipe. Se il crescendo di tensione della storia si avverte scandito in modo meccanico dalle esplosioni di rabbia della sua brava protagonista, la carismatica Lyna Khoudri, il film convince nel tratteggiare il cameratismo e la solidarietà del gruppo di ragazze, di cui Nadjma è cardine sensibile e determinato.

La delicatezza dei rapporti, l’onestà delle parole e la trasparenza di animi indecisi fra la voglia di andarsene e rimanere si intrecciano con i colori caldi e femminili di cui si avvale la fotografia, in contrapposizione ideologica e personale con il nero violento di burka e kalashnikov. Piegare una stoffa, tingerla di colori presi dalla terra per una rivoluzione lenta e persuasiva: ipotesi interessante, di cui è legittimo attendere il secondo capitolo.