Il rapporto tra Henry e Jane Fonda meriterebbe un film o una serie, ma in fondo può bastare Sul lago dorato per capire quanto sia stato faticoso per l’attrice fare pace con quel genitore così impegnativo. In Jane Fonda in Five Acts, un documentario che è sostanzialmente un’autobiografia, le vicende familiari (l’infelice madre morta suicida, l’incomunicabilità, il lavoro che tiene lontano Henry, i problemi di salute di Jane) spiegano bene la complicata relazione tra padre e figlia.

La prima parte della carriera di Jane Fonda è piuttosto interessante, sospesa tra l’adeguamento al cliché della bella bionda e il tentativo di affrancarsi dal glorioso genitore: sfrutta il suo aspetto per incarnare la ragazza della porta accanto (In punta in piedi, Rodaggio matrimoniale, A piedi nudi nel parco), lascia che il marito Roger Vadim ne esalti la carica erotica (Il piacere e l’amore e Barbarella), gioca con la figura paterna e i suoi miti (Cat Ballou). E poi arriva Sydney Pollack. Trentacinquenne con all’attivo già quattro film peraltro grandiosi, seguendo un intuito che confina con l’azzardo, affida a Fonda il primo ruolo serio dopo La caccia, capolavoro di Arthur Penn dove emergeva un temperamento.

La pazzesca storia di Non si uccidono così anche i cavalli? è nota: a ridosso della Grande Depressione, pur di racimolare qualche soldo, delle coppie di disperati ballano per giorni interi in una competizione-maratona all’ultimo sangue. “Per te è una gara, per il pubblico è uno spettacolo”. Perché non pensare a questa malata, straziante, claustrofobica allegoria della nazione in parallelo con il viaggio della speranza che la famiglia Joad compie in Furore di John Ford, forse il più importante dei film con Henry Fonda? Due facce della stessa tragedia, pezzi di un mondo perduto, due parabole di un’epoca che i Fonda esplorano ognuno con straordinaria intelligenza: l’uno sul versante eroico, tutta in levare, guida morale per rifondare una nuova umanità; l’altra, un’antieroina all’ultimo giro che non crede in alcun modo che possa esserci l’ombra di una speranza.

Guardiamoli, riconosciamoli: la tirannia dello sguardo, la potenza nel gesto imprevisto, l’audace eppure naturale equilibrio tra raziocinio e nervosismo sono le stesse. C’è un momento, verso l’inizio di Non si uccidono così anche i cavalli?, in cui Gloria (Fonda) sta ballando per la prima volta col suo nuovo, timoroso partner. Potrebbe essere l’annuncio di un’alchimia impossibile, finché, all’improvviso, lei capisce che forse il compagno di sventure non è lo smidollato che crede. E allora gli occhi di Gloria si spalancano, attraversati da un lampo imprevisto. Si è rotto qualcosa. Poco dopo, catapultata di nuovo nello sconforto, annienta una competitor incinta con una sentenza che non lascia scampo: “buttate un altro disgraziato nella mischia”.

Grazie all’interpretazione di Jane Fonda, Gloria è uno dei personaggi più incandescenti del cinema hollywoodiano. Disincantata ma non cinica, alla ricerca di una rivincita personale e indisponibile a scendere a compromessi. Niente può scuoterla, nemmeno la sirena che mai come qui è un presagio di morte. Forse solo la lucidità che la scopre impreparata ricordandole il suo destino. “Se ne andava alla deriva ascoltando le sue canzoni preferite: così finiva”, bofonchia il partner, caricato sulle sue spalle perché schiantato dalla gara, mentre le racconta la trama di un film. E lei, che sente il peso ma non lo dà a vedere, si chiede, riconoscendosi: “neanche un po’ di dolore? probabilmente è una balla”. C’è già tutto, qui.

Incredibile la brama di (soprav)vivere nelle tragiche corse, perfino quando si accolla il vecchio Red Buttons per non uscire dal gioco. “So riconoscere subito un perdente”, le dice Rocky, il gran burattinaio di questo proto-reality dove conta solo lo show (è Gig Young: vinse l’unico Oscar del film su nove candidature). “Sono stufa di perdere!” urla lei. Ma ha già perso, hanno perso tutti. Per Jane Fonda è l’inizio di una nuova carriera.