Dopo Scappa – Get Out e Noi, con Nope il Premio Oscar Jordan Peele prosegue la rilettura degli stilemi narrativi hollywoodiani in una prospettiva smaccatamente black, dimostrando definitivamente che questa non è solo una scelta formale dettata dalla recente ondata di interesse verso la situazione nera statunitense. In pochi film il regista ne ha fatto invece un personale e provocatorio manifesto culturale, che evidenzi il ruolo fondamentale che gli afroamericani hanno avuto e hanno tutt’ora nel contesto nazionale così come le dinamiche sociali, interne ed esterne, che ancora ostacolano la loro effettiva e definitiva emancipazione.

La vicenda di OJ ed Emerald, addestratori di cavalli per Hollywood eredi dell’attività di famiglia dopo la morte del padre in un inspiegabile incidente che si scoprirà provocato da una minacciosa entità aliena da cui dovranno difendersi, appare l’ennesima variazione su un tema proprio della cultura filmica statunitense. Ma come le opere precedenti di Peele, anche il suo terzo lungometraggio si struttura su diversi livelli di fruizione e un simbolismo di non immediata decifrazione, che ne fa una sorta di saggio visivo in chiave metaforica su una realtà sotterranea, negata o rifiutata dai più, giocato sulla costante connessione tra il passato e il presente nazionale. E questo a partire dai due generi di riferimento, il western e la fantascienza, forme per eccellenza dell’epica popolare bianca – l’idea di conquista e civilizzazione della wilderness, deserto o spazio che sia, che sta alla base di entrambi – da cui i neri sono stati regolarmente esclusi o relegati a ruoli secondari.

Non è un caso dunque che i due protagonisti siano discendenti di Alistair E. Haywood, il fantino nero mai accreditato protagonista di Sallie Gardner al galoppo (1878) primo esperimento di immagini in movimento del pioniere del cinema Eadweard Muybridge. Un’accusa diretta a un sistema che ha da sempre sfruttato gli afroamericani senza mai riconoscere loro i meriti dovuti e che perpetua ancora questa pratica, come dimostra lo sgradevole clima su un set in apertura del film. Un’industria fondata sull’immagine che ha negato qualunque altra fosse diversa dalla propria, dal suo ideale estetico e biologico, facendo di questa negazione l’annullamento stesso di un diverso sguardo. Come se a quel modello non ci fosse alternativa: l’America era ed è quella. Ai neri, ispanici o asiatici (le etnie che compongono il cast di Nope) è consentito guardare, ma la loro visione resta sempre parziale, incompleta, irrisolta. In definitiva non appagante.

Lo sguardo – così come l’ipnotico tintinnio in Scappa o il contatto con il proprio doppio in Noi – diventa la chiave interpretativa del terzo capitolo di una ideale trilogia sui sensi e la loro percezione. Nello specifico una negazione dello sguardo, inteso sia come “non vedere” che “non guardare”. Nel primo caso ne sono esempi le numerose morti fuoricampo o l’impossibilità di scorgere il mostro. Il non (riuscire a) vedere diventa così anche la parziale frustrazione dello spettatore che vorrebbe osservare ma invano.

Simbolica in questo senso la posizione del giovane Jupe Park, testimone parziale – perché nascosto – della furia animale della scimmia durante le riprese di Gordy’s Home in cui da bambino aveva recitato (episodio ricostruito poco a poco attraverso i suoi ricordi, come in una graduale soluzione di montaggio), e il relativo gusto morboso del pubblico desideroso di rivivere l’esperienza attraverso il meccanismo voyeuristico del video. Allo stesso modo, la presenza costante di telecamere e videocamere, strumenti che consentono di vedere a distanza senza essere scorti, la cui funzionalità è però regolarmente annullata dai campi magnetici generati dalla creatura aliena (emblematica in questo senso la figura di Antlers Host, il direttore della fotografia ossessionato dalla ricerca dell’immagine perfetta che finirà per esserne letteralmente assorbito).

“Non guardare” è invece il divieto di scrutare la creatura per non esserne vittima, intuizione avuta da OJ, la cui attività l’ha reso particolarmente avvezzo nel trattare bestie selvatiche. Il legame tra il protagonista e le fiere non è casuale. Da sempre associato a una denigrante idea di brutalità, l’afroamericano ha subito sin dalla schiavitù un trattamento analogo a quello riservato agli animali – atteggiamento che, pensando solo al filmato dell’omicidio di George Floyd, persiste ancora. Nero e bestia sono stati addomesticati a forza (torna qui il legame con il western, la sua poetica e ideologia) ed entrambi hanno sviluppato un istinto di salvaguardia, un’inaccessibilità che in definitiva li rende imprevedibili e perciò irrimediabilmente pericolosi. Ecco allora gli scatti inattesi del cavallo Lucky o della scimmia Gordy, animali non a caso associati all’afroamericano nell’immaginario storico razzista che lo vuole terrificante e al contempo affascinante incrocio tra animale e uomo.

Questo parallelo è uno snodo tipico del cinema di Peele, da sempre fortemente ancorato alla cultura afroamericana indagata di volta in volta sul piano storico e sociale. La capacità del protagonista di mantenere lo sguardo basso è allora data tanto dall’esperienza quanto dalla sua introspezione e timidezza, ma simboleggia il retaggio culturale di quel reckless eyeballing, l’“uso irresponsabile delle pupille” che poteva costare la vita a un afroamericano se solo osava ad esempio guardare una donna bianca. “Ti getterò addosso delle immondizie, ti umilierò e ti esporrò allo scherno” (Naum 3:6) riporta la citazione biblica in apertura del film, quasi a dire che pur se la minaccia è cambiata, il pericolo resta sempre il medesimo. In pratica lo sguardo furtivo e fugace è diventato nel tempo per il nero un mezzo di salvezza e autodifesa, di apparente sottomissione che nasconde però anche una forma di resistenza: “una lotta secolare per essere visti, per ricominciare a vedersi, per costruire una propria visione del mondo e degli altri, e per dare a tutto questo forma di linguaggio” (Alessandro Portelli).

Non sorprende allora che alla fine Emerald riesca a riprendere il mostro con una rudimentale apparecchiatura fotografica, dunque non un insieme di fotogrammi in movimento ma uno solo, statico: un ideale ritorno alle origini che porti a riscrivere la storia e la storia delle immagini da un altro punto di vista.