L’inizio di Normal ha già un che di programmatico, politico, se vogliamo. La macchina da presa è fissa sul volto inquieto di una bambina che non desidera affatto bucarsi le orecchie, ma deve perché ci si aspetta che faccia così per coprire quei tratti del volto ancora indefiniti, incerti, quasi gli orecchini costituiscano una specie di suggello identitario. Fin da bambini, quindi, identità di genere e sesso biologico non possono che coincidere, altrimenti si è fuori dalla norma. C’è poi una panoramica sulle varie tipologie di giocattoli: ferri da stiro e cucinotti per “bambine” raffigurate sognanti e in attesa di “bambini” a cui invece spettano strumenti di caccia e lavoro. E il documentario di Adele Tulli funziona proprio per questo, per una disamina che analizza il carattere strutturale e congenito del problema della disparità di genere, andando a scandagliarne con rigore scientifico e puntuale le singole componenti.

Adele Tulli fotografa una realtà per certi versi invisibile o anche abbastanza lontana da chi vive, ad esempio, contesti in cui l’informazione e gli studi sul genere risultano ormai standardizzati. Se da un lato si assiste alla nascita di nuovi ed eterogenei immaginari femministi - recente è l’uscita del manifesto xenofemminista del collettivo Laboria Cuboniks, tradotto da Clara Ciccioni, “antinaturalista” perché contesta i limiti biologici, intersezionale e queer – dall’altro l’aria che si respira è stantia, vecchia e significativa, in questo senso,  è la sequenza in cui un manipolo di donne prossime al matrimonio ascolta i consigli di una signora che sembra piombare direttamente dall’America degli anni ‘50/60, sulla necessità di non lasciarsi andare, prendersi cura del marito, dei bambini, della famiglia. Parole che specialmente in periodi di World Congress of Families e decreti Pillon risultano urtanti e oltraggiose e, per contraltare, invitano a riflettere sui meccanismi sociali in cui ci troviamo immersi fin dall’infanzia.

L’insistenza sulla dimensione infantile è appunto una delle caratteristiche di maggiore interesse del documentario di Adele Tulli, perché è a quei momenti, a un’educazione alla sessualità e al genere “fuori norma”, eterogenea, che si radichi prima nelle scuole e nei luoghi del sapere, che bisogna far riferimento per far sì che nascano e poi si sviluppino modelli comportamentali differenti e conglobanti.

Normal si avvale poi di un’estetica molto forte ed efficace, per cui certe scelte formali (il totale del negozio di vestiti da sposa ripreso dal desolante ciglio della strada, o il distacco con cui sceglie di inquadrare le madri con il passeggino che fanno ginnastica) restituiscono smarrimento e desolazione, probabilmente gli stessi in cui il genere transita nel "campo di battaglia" da lei attraversato.