Disponibile su Mubi dall’11 giugno, Shiva Baby è il lungometraggio d’esordio di Emma Seligman, nato dal corto omonimo girato nel 2018 e presentato al South by southwest e al Toronto International Film Festival. Due figure sfocate amoreggiano in lontananza: lei è Danielle, lui Max, in mezzo una bella differenza d’età. Dopo aver raccolto il lauto pagamento, la giovane amante corre al ricevimento funebre presso la casa del parente defunto, dove diventa il bersaglio delle malignità dei parenti serpenti lì assiepati. Nella dimora-prigione ritrova Max con moglie e figlio e Maya, un’ex amica con la quale è ormai in rotta di collisione. La guerra è servita.

Shiva Baby, contrappuntato dalla colonna sonora snervante e tesa di Ariel Marx, ambientato quasi interamente in una escape room e incentrato sulla partecipazione a una cerimonia funebre ebraica,  non è un horror, ma un social-cringe-thriller: un “carnage” da camera o  una modulazione del dramma satirico à la Vinterberg, dove sono messe a fuoco le relazioni pericolose tra consanguinei borghesi; insomma, una “festen” macabra dal colore ebraico e dal retrogusto amaro in cui la giovane protagonista affoga in un mare di risentimento. Danielle, tutta smorfie e contrite reticenze, incapace di sfuggire alla claustrofobica gogna che si consuma tra le quattro mura a opera dell’orda parentale, si improvvisa funambola appesa al filo, decisa a superare le intemperanze della famiglia attraverso le sue salvifiche nevrosi. La ragazza nasconde le sue tensioni sentimentali, si sforza di apparire anodina e sfoga la sua frustrazione su cibi che non inghiottirà mai per intero, mentre gli altri vomitano parole a getto continuo.

Divorata dagli intrighi parentali e dalle soffocanti attenzioni di zii e cugini che le pongono domande ossessive sul fidanzato, il diploma e sulle prospettive future, la giovane risponde con la nobile arte della dissimulazione. L’immagine che scaturisce è quella di un’anoressica bisessuale, “sugar baby” e studiosa del gender, soggiogata da una schiera di bulimici conservatori. La rappresaglia verbale, in chiaro stile comico ebraico, esplode con l’entrata in scena di Max, il “sugar daddy” con il quale aveva amoreggiato poco prima, della bella moglie, e del figlio di otto mesi che con i suoi pianti scandisce il tempo del disagio. A complicare il tutto, la difficile riconciliazione con l’amica Maya.

Shiva Baby è un esordio coraggioso, incastonato in un mosaico di parole sadiche e dialoghi caustici, capace di esaltare il potere incantatorio di una messa in scena fatta di primi piani ravvicinati e ritmi nevrotici, quasi ad acuire lo spartiacque tra l’emotività sottotraccia della protagonista e il ludibrio esibito. Nulla è lasciato al caso, anche il più insignificante dettaglio è mostrato con cura (i collant che incidentalmente Danielle si strappa non sono che il contraltare, profano e provocatorio, della veste che la ragazza non ha potuto strapparsi al funerale, come si è soliti fare nelle cerimonie ebraiche) e la situazione trapassa con naturalezza dall’allegoria bunueliana de L’angelo sterminatore (epurata da ogni anelito surrealista) a un realismo deformante che trasforma i protagonisti in patetiche caricature, sempre in bilico tra accenti grotteschi e toni frivoli, immancabilmente catturati da una macchina da presa avvinghiante.

Di innocuo, però, in questa “panic room” contornata da lame taglienti, c’è ben poco, e l’unica reazione possibile alla derisione messa in atto è il rovesciamento dell’assunto di Bermant, secondo cui “l’agilità dell’ebreo è limitata alla sua mente”. Danielle è invece soprattutto corpo, nevrotico e sbilanciato, un distillato di pensiero-azione che annaspa senza affogare in un mare di ipocrisie.