Dopo la palpitante messinscena con Tom Hanks, Sully finiva con una parentesi documentaristica in cui il vero comandante incontrava i passeggeri salvati nell’ormai celebre “miracolo dell’Hudson”. Anche American Sniper terminava con le immagini del reale, nella fattispecie il funerale del protagonista: non solo un tipico epilogo da biopic, ma un altro elemento di quella consapevolezza politica che ora esplode nel già molto discusso Ore 15:17 – Attacco al treno. Nella rievocazione dello sventato attacco terroristico su un convoglio diretto a Parigi nell’agosto 2015, Clint Eastwood porta all’estremo la dialettica tra finzione e realtà e rimette in scena la storia chiamando i tre ragazzi americani che impedirono l’attentato a reinterpretare se stessi. Non fosse altro che per questo dato, il film si presenta con una complessità teorica in cui la realtà si fa vettore di realismo dentro una narrazione nella quale gli eroi rivivono il momento che li ha resi tali.

Ovvio che il film risulti problematico e perfino improbabile in certi passaggi sospesi tra la predestinazione e la banalità, ma c’è forse nei suoi confronti una diffidenza di fondo che lo mette accanto a Billy Linn – Un giorno da eroe di Ang Lee, altra esperienza dentro le possibilità date dalla mediaticità del reale. Eastwood, maestro assoluto della trasparenza, radicalizza all’estremo la mimesi ai limiti dell’autoanalisi (personale, collettiva), lasciandola collimare con un’esigenza di autenticità cosciente della potenza del cinema nel farsi luogo di un discorso sulla nazione: quello sull’essere eroi, oggi, nell’epoca della minaccia perenne. Poiché, come in Sully, l’evento in cui i protagonisti entrano nella storia con la maiuscola è alquanto breve, Ore 15:17 dilata la mitologia raccontando il passato dei giovani. La fabbrica degli eroi inizia con due di loro (Spencer e Alek) che vivono un’infanzia senza padri, con le devote madri – che rifiutano una possibile diagnosi di deficit dell’attenzione dei figli (attenzione al monito dell’insegnante) – preparate da sempre a vederli partire per una guerra che difenda i sacri valori nazionali. Infatti, i bambini giocano a diventare uomini crescendo magnetizzati dalla fascinazione delle armi e del fare guerra: Spencer ed Alek la coreografano grazie al softair, mentre il nuovo amico, Anthony, vispo e scafato, gioca col buonsenso di chi non vuole farsi ingannare.

Preclusa a Spencer, giudicato inadatto alla responsabilità, ed oggetto di delusione per Alek, impegnato nel dimenticato disastro afghano, la war zone li sorprende dove la guerra non dovrebbe esserci, mettendo alla prova il senso del sacrificio nei confronti di un Paese le cui istituzioni si sono quasi sempre rivelate incapaci di rispondere alle loro aspettative. E Anthony? Né soldato né guerrafondaio, è un common man alla Sully che, non fregato dalle promesse della guerra al terrore, si preoccupa durante l’attentato dell’elemento umano. Perché, sì, se di eroi abbiamo bisogno, che siano almeno protagonisti di un’epica vera, solida, completa, lontana dalla madrepatria, e non di una storia riletta a proprio favore che li vede sempre assoluti e solitari trionfatori sul male.