Esiste una foto un po' inusuale di Orson Welles: sdraiato mollemente su un letto, un gomito appoggiato a sorreggere la testa, lo sguardo stupito e indifeso di chi è stato sorpreso in un attimo di intimità. Un Welles molto diverso dall'immagine forte impressa nella memoria collettiva: non ieratico come Macbeth, non prepotente come Charles Foster Kane, non sordido come Hank Quinlan, non violento come Otello.
Questa foto torna e ritorna in Lo sguardo di Orson Welles (2018, ora disponibile su piattaforma I Wonderfull), nel quale il critico cinematografico Mark Cousins tratta Orson Welles come un amico. Se è vero, come diceva Italo Calvino, che un classico non ha mai finito di dire quello che aveva da dire, Cousins articola la sua riflessione visiva in forma di domande rivolte da fuori campo allo stesso Welles, chiamandolo per nome e immaginandone lo risposte, in una sorta il dialogo ininterrotto con la vividezza del suo pensiero.
Cousins non è solo il critico con la voce bella come un doppiatore, è soprattutto il critico che si rapporta al cinema in perfetto equilibrio fra slancio amoroso e ragione. Esamina i tratti wellesiani nella composizione delle inquadrature e nell'utilizzo di luci e ombre, e non manca di addentrarsi nei tecnicismi delle ottiche per far comprendere la rilevanza degli esiti ottenuti, in questo sfruttando appieno i vantaggi del saggio visivo. Eppure nel raccontarne la vita non procede in maniera cronologica o analitica, ma tramite le sue passioni artistiche, politico/civili e sentimental/amorose. Peraltro, come un amico che eviti di riportare il ricordo sui grandi dolori passati, glissa su L'orgoglio degli Amberson e sugli ultimi anni.
Cousins si sforza di ricusare l'istintiva prospettiva cine-centrica di fronte a un Welles che ha messo la sua visione rivoluzionaria al servizio di più mezzi, dal cinema, alla radio, al teatro. Così gli sovviene persino il dubbio che, viste le varie forme espressive, il vero spirito di Welles non fosse quello del regista, ma dell'artista visivo in senso più largo. In tal senso c'è da dire che la sua interpretazione pare in una certa misura viziata dalla possibilità – oltremodo sensazionale – di poter avere accesso ai quaderni, disegni e dipinti di Welles, messi a sua disposizione dalla figlia Beatrice.
Nella sua ricerca disperata e impossibile dell'essenza ultima di una persona tramite le tracce che ha lasciato, un tentativo così simile a quello su “Rosabella” in Quarto potere, Cousins e la sua piccola videocamera seguono le orme del giramondo Welles fra New York, Chicago, l'Irlanda della sua gioventù, il Marocco, Siviglia, Segovia, arrivando anche a Montecatini. Con quell'eclettismo delle associazioni che gli riconosciamo come cifra distintiva da The Story of Film: An Odyssey, abilissimo a ragionare in prospettiva storica ma attualizzando le questioni, Cousins procede nella sua esposizione dell'impatto della poetica di Welles tramite citazioni che si spingono sino a Ricomincio da capo.
Continuando a sottoporgli dubbi e domande, Cousins si(lo) interroga su cosa ne penserebbe dell'attuale fruizione dei film sugli smartphone, se lo lascerebbe inorridito o stimolerebbe invece la sua vena di innovatore dei media. Così come speranzoso si augura che la crisi economica dei nostri anni possa costituire l'humus da cui far germinare inaspettatamente un genio iconoclasta come Welles, maturato nei postumi incerti del tracollo del 1929.
Ne risulta alla fine un ritratto confidenziale, più che sentimentale, del tutto agli antipodi di quella critica che, con fare gelido e superbo, indica agli spettatori cosa dovrebbero pensare più che offrire spunti per riflettere, e mai si chiede perché faccia così poco amare non solo se stessa, ma il cinema (il peccato più grande). Nice shot, Mark.