Il successo di pubblico e critica quanto i riconoscimenti nazionali e internazionali parlano chiaro sulla popolarità di Ovosodo. Il terzo lungometraggio diretto interamente da Paolo Virzì si è guadagnato il titolo di film di culto anche perché invecchiato molto bene, sia dal punto di vista tecnico che per la persistente attualità del suo messaggio.

In questa commedia generazionale e di (de)formazione si trovano già in nuce i temi e la cifra stilistica del Virzì che sarà, a partire dall’attenzione per il contesto cittadino di riferimento, in questo caso la Livorno che gli ha dato i natali. Le fabbriche intossicanti, la suddivisione in quartieri della provincia toscana e soprattutto l’ottimismo vernacolare dei personaggi determinano il destino agrodolce del giovane protagonista, Piero. Il film lo accompagna dall’infanzia nel rione popolare Ovosodo fino alla paternità, senza che il personaggio cresca granché, se non sul versante sentimentale.

Tra flashback, inserti e personaggi che entrano ed escono continuamente di scena, la sceneggiatura si dimostra solida, creando un flusso narrativo sincopato ma credibile, che sfrutta la voice over di Piero come collante. Altro grande punto di forza della scrittura sono i dialoghi e i monologhi interiori al protagonista. In entrambi i casi l’espressione è vivace e divertente, sapendo inserire accenni di malinconia.

Il limite e l’acerbità del film risiedono tuttavia proprio sul frangente del registro tragico. Al di là dei vari intrecci romantici più o meno significativi, Ovosodo si concentra sulle disparità di classe, su come l’apparato economico reprima prospettive di crescita sociale confinando deterministicamente le scelte di vita. Pur presente questo elemento non emerge mai veramente, rimane confinato a sottotesto fra le righe senza risultare mai graffiante o provocatorio. Non un singolo personaggio dimostra abbattimento o insoddisfazione se non a parole, e anche quando lo fa il registro leggero e spensierato torna a prendere il sopravvento.

Ne risulta il ritratto di una generazione abbindolata dal sogno berlusconiano, piacioni privi di reali ambizioni ed accondiscendenti fino all’abnegazione. Sono ancora lontani la carica emotiva di Tutti i santi giorni o il cinismo di Il capitale umano, e quel simbolico uovo sodo rievocato nel finale, che rimane in gola giorno dopo giorno, finisce per diventare un amichevole compagno piuttosto che uno stimolo al cambiamento. Ovosodo è un cult spensierato e godibile, che purtroppo va avanti col freno tirato e finisce per puzzare di accomodante.