Il mondo del lavoro non compare spesso nel nostro cinema attuale (come, ahimè, latita nell’agenda politica del paese, anche in quella di sinistra). È un grande assente del dibattito pubblico e dei film per il grande pubblico, un argomento scomodo che dopo gli anni Settanta di Petri, Scola e pochi altri è finito definitivamente nel dimenticatoio.
Se si guarda indietro agli ultimi decenni, a parte qualche raro esempio come Tutta la vita davanti di Virzì (sul precariato dei call center, da un romanzo-denuncia di Michela Murgia) o 7 minuti di Placido (il suo film più ignorato, e uno dei più riusciti, scritto da Stefano Massini) e qualche altro sparuto esempio, di diritti dei lavoratori, di sindacato, di padroni si sente parlare poco. O meglio niente. E già per questo il film di Michele Riondino appare come un’opera necessaria, una rarità a cui prestare attenzione.
Lo è ancora di più perché va a toccare uno dei grandi vanti e delle grandi vergogne, ambientali e industriali, dell’Italia non più paese povero, nata forzatamente con lo scoppio propulsivo del boom e arrivata consumata alle soglie del nuovo millennio: l’ILVA di Taranto. Michele Riondino, tarantino, è impegnato da anni a sensibilizzare e denunciare all’opinione pubblica i soprusi e la devastazione che hanno colpito la sua terra. Non sorprende quindi la scelta di raccontare, con il suo esordio alla regia, una piccola grande vicenda di lavoro e lavoratori, che diviene nelle sue mani l’emblema di un sistema che, agitando il feticcio della difesa del fatturato, ha fatto, e ha potuto fare, qualsiasi cosa.
Il film inizia con un funerale, quello di un operaio schiacciato: una morte sul lavoro, una delle tante, l’ennesima e non di certo l’ultima. Una morte che inasprisce gli animi e le rivendicazioni sindacali all’interno dell’azienda, in un momento di grande incertezza. Siamo nel 1997, negli anni dell’“era Riva”, della crisi dell’impresa pubblica e della scellerata privatizzazione. Caterino (lo stesso Riondino), operaio insoddisfatto e arrabbiato, diviene la spia del luciferino dottor Basile (Elio Germano).
Pronto a riferire tutto sui colleghi che si oppongono o sollevano dubbi sul nuovo corso neoliberista, nell’ottica del “mors tua vita mea”, o più precisamente del più pragmatico e italianissimo “tengo famiglia”, la scusa con cui in questo paese si giustifica qualsiasi azione che si fa pensando ai propri interessi senza preoccuparsi delle ricadute sul prossimo. Il protagonista diventerà cioè complice dello stesso sistema che lo sfrutta, il sicario di chi, promettendo ai servi di diventare padroni, mette i poveri uno contro l’altro; generando e fomentando odi, invidie, indebolendo la solidarietà sociale e il sindacato. Un sistema che ti usa per i suoi scopi e poi ti abbandona al tuo destino.
La Palazzina Laf, quella che dà il titolo al film e che Riondino e il suo co-sceneggiatore Maurizio Braucci mettono al centro della narrazione, è una sorprendente, surreale metafora. È qui che il sogno fantozziano dell’impiegato fancazzista, che prende il sole e gioca a ping-pong sulle scrivanie dell’ufficio, cambia di segno e si trasforma in un incubo, un girone dantesco in cui l’inattività forzata, il demansionamento immotivato, il lento scorrere del tempo senza scopo e senza possibilità di fuga, diviene un’arma micidiale nelle mani dei padroni. Un reparto confino, una struttura fatiscente e in disuso dove parcheggiare dipendenti scomodi, per convincerli con proposte di lavoro assurde, a licenziarsi.
A questo si aggiunge l’umiliazione che nasce dal biasimo e dallo scherno degli altri operai della fabbrica, che guardano a questi “fortunati” impiegati come fossero imboscati, privilegiati, esentanti per raccomandazioni o incapacità dal lavoro vero. Quello delle batterie, dei forni, quello che uccide, lentamente o in un attimo, per le norme di sicurezza non rispettate o per un inquinamento che in quelle terre, e in molte atre, è ancora un problema, e lo sarà a lungo; il futuro e il presente di “un acciaio che serve a creare la ricchezza di qualcun altro e a noi lascia solo la monnezza”.
Riondino regista si dimostra anche abile direttore di attori, a partire dalla fauna varia e disorienta che popola la palazzina Laf. Tutti perfettamente sullo stesso tono, capitanati da Michele Sinisi e Vanessa Scalera. Facce normali di gente follemente disperata, schiacciata da un potere difficile da scalfire. E se a volte lo sviluppo della storia risulta programmatico, e qualche passaggio un po’ forzato, l’approdo finale del protagonista è sorprendente e coraggioso, affatto consolatorio.
Vittima e carnefice, Caterino è roso dai dubbi e sembra vacillare di fronte alla retorica cristiana del Giuda iscariota, ma non abbastanza per arrivare a una vera presa di coscienza, non abbastanza per pentirsi, per avere piena consapevolezza che il bene che fa a sé è il male per altri. La cultura religiosa insita nel mondo contadino da cui proviene lo salva fino a un certo punto: lui è l’ultimo approdo dell’industrializzazione forzata iniziata negli anni Sessanta, la coda finale, malata, che abbiamo lasciato alle nuove generazioni.
È il fautore debole della legge del più forte, quella che ci fa accanire contro gli ultimi, che pretende di arrivare “prima” di tutti gli altri, che parla di merito senza tenere conto del punto di partenza, delle variabili. Un’Italia che, purtroppo, esiste ancora ed è più viva che mai.