Palombella rossa è per Moretti un’opera sofferta, faticosamente scritta e realizzata, ed è anche un importante film di passaggio: l’ultimo con l’alter ego Michele Apicella, chiude una fase della sua filmografia prima dei ‘memoriali’ Caro diario e Aprile e della svolta realista e narrativa della Stanza del figlio e dei lavori successivi.

È un film sulla memoria, anzi sull’assenza di memoria, di un politico comunista alle soglie della dissoluzione dell’URSS e della caduta del muro, della fine delle ideologie e della scomparsa del Partito Comunista (per un ulteriore approfondimento morettiano sull’argomento si consiglia di vedere La cosa, imprescindibile documentario girato nelle sezioni del PCI dopo la svolta della Bolognina, che fa sanguinare il cuore se si paragona la complessità di pensiero e di analisi dei semplici militanti di allora a quella di alcuni nostri importanti politici attuali).

La fuga da un presente incomprensibile e inaccettabile coincide, come altre vote in Moretti, con un rifugiarsi nel passato, nei primi anni della militanza politica, in un’infanzia idealizzata e disperatamente rimpianta (“i pomeriggi di maggio non torneranno più, le merendine di quando ero bambino. Mia madre non tornerà più. Il brodo di pollo quand’ero malato. Gli ultimi giorni di scuola prima delle vacanze…”). Impegnato in una difficile partita di pallanuoto, stretto tra le pressioni della famiglia, della stampa, di alleati e avversari politici, di un paese che chiede risposte, Michele cerca di trovare una direzione in cui muoversi, certezze a cui ancorarsi.

Non ha molte di queste certezze, ma anche se non si ricorda, anche se i maestri, quelli che ci hanno cambiato la vita, sembrano non avere più niente da dire, comunque una cosa la sa: vuole restare fedele agli ideali che aveva quando era ragazzo, perché non rivendicarli significa perdere non solo la memoria ma l’identità, diventare più uguale che diverso a quei fascisti che invece non si vergognano per niente delle loro posizioni, delle loro idee; fascisti che non chiedono scusa, che rifarebbero esattamente le stesse cose. E allora, viva i facili schematismi, in cui rossi e neri non sono mai uguali: meglio sicuramente essere schematici che “uno di quelli spregiudicati, al di fuori di tutte chiese, che parlano liberamente di tutto”.

Il discorso più importante Moretti lo fa proprio sul linguaggio: “le parole sono importanti” grida schiaffeggiando la povera giornalista interpretata da Mariella Valentini, che usa espressioni orribili, un vocabolario infarcito di frasi fatte, che generalizzano i concetti, appiattiscono il pensiero, semplificano e alterano la realtà.

La crociata di Moretti contro la stampa viene da lontano – e, a giudicare da certe stoccatine nell’ultimo Il sol dell’avvenire, non è ancora finita – ma mai come in Palombella rossa sono chiaramente denunciate le responsabilità di certo giornalismo nella degenerazione culturale del paese. Perché “la vita di un uomo viene sporcata per sempre se qualcuno ne parla su un settimanale” e “un concetto, appena viene scritto, ecco subito che diventa menzogna”.

La pallanuoto, sport praticato e amato dal regista, diviene qui luogo di scontro (anche dialettico) in terra straniera: la partita contro l’Acireale, giocata fuori casa, con un pubblico ostile, serve a Moretti per mostrare la fatica che il protagonista ha nell’esprimere la propria opinione e a raccontare quanto fosse difficile essere comunista in quel 1989 dove tutto stava cambiando, e nulla sarebbe più stato come prima. Alla fine Michele non ce la farà a modificare i suoi soliti schemi, sbaglierà il rigore decisivo e perderà la partita.

Per quanto lo si speri, per quanto lo si desideri, il finale del Dottor Zivago non cambierà mai. Una sola speranza sopravvive: quella di un sole dell’avvenire di carta pesta che esce da dietro una collina, a cui tutti, amici e avversari, presenti e passati, tendono disperatamente. O forse è solo un’illusione irraggiungibile?

Una salvezza ci sarebbe stata, ed è nascosta nell’ormai proverbiale “chi parla male pensa male e vive male”: quello di Michele è un monito chiaro al suo partito sull’importanza di restare, anche nella scelta delle parole, uguali ma diversi. Ed è l’appello di Moretti alla sinistra sulla necessità di rivendicare un linguaggio che rifugga dalla volgarità imperante, da quell’idioma di certa informazione e di certa politica che Berlusconi avrebbe di lì a poco definitivamente sdoganato, e la sinistra definitivamente abbracciato; scegliendo le parole facili invece delle parole giuste, rincorrendo la destra, inutilmente, sullo stesso piano, sullo stesso terreno semantico, invece di costruire un linguaggio proprio, riconoscibile, alternativo. Invece di dire “qualcosa di sinistra”.

Quella contenuta in Palombella rossa è, infine, un’accorata critica alle facili semplificazioni e un bellissimo elogio alla complessità, ai “troppi pensieri che fanno bene”, purtroppo presto dimenticato. Se lo avessimo ascoltato con più attenzione allora, forse, le cose sarebbero andate diversamente. Ci aspettavamo di più dalla vita, ma la partita è andata come è andata.