Traffic, Erin Brockovich, Che, The Informant, Contagion e adesso Panama Papers. Se c'è un bolscevico a Hollywood, anticapitalista nel midollo, quello è Steven Soderbergh. Inafferrabile, sì, eclettico ed innovativo, ma sempre profondamente schierato contro il potere costituito che opprime i deboli per mantenersi e rigenerarsi.

Se Contagion adottava i toni gravi e metaforici di un'epidemia sanitaria globale per la crisi economica del 2008 e per ritrarre lo sgomento di milioni di persone rimaste nottetempo senza casa o lavoro e la totale impreparazione di chi quello sgomento aveva generato, Panama Papers arriva otto anni dopo con i modi beffardi da cugino sarcastico dell'altro film, per completare con amarezza l'affresco. Confezionato sullo scandalo del 2015 di società assicurative fraudolente nascoste sotto il guscio della compagnia madre Mossack-Fonseca. Panama Papers stacca da subito due biglietti da visita di extra-lusso: quelli di Mossack e Fonseca in persona. Sono loro, infatti, ad illustrarci con modi affabili, disponibilità estrema, disegni, schemi ed elenchi puntati, i meccanismi illeciti della finanza moderna avida e de-regolata, che produce denaro inesistente nel sistema e conseguenze nefaste sulle masse. Hanno il volto vampiresco di Gary Oldman, luciferino Mossack di sangue nazi, e quello abbronzato di Antonio Banderas, affascinante Fonseca dal caldo accento spagnolo.

I due Ciceroni, con lo sguardo fieramente in macchina, cedono di tanto in tanto il testimone della narrazione a complici più o meno consapevoli: dalla vedova Ellen, che scopre la loro frode indagando sola sul mancato risarcimento della compagnia assicurativa dopo la morte del marito, a speculatori di vario grado - uomini laidi, corrotti e orrendi a vedersi -, e persino a Meryl Streep in persona, democratica progressista e mito vivente al pari della Statua della Libertà e dei principi fondativi di una nazione, gli Stati Uniti, che Soderbergh vede ormai irrimediabilmente marcia.

Per rappresentarla, con i paradisi fiscali che la circondano, il regista sceglie uno stile povero e posticcio ed un andamento appiccicoso per un racconto a scatole cinesi che si adatta con visibile rassegnazione a quelle finte, ma mai sanzionate come giustizia vorrebbe, delle bolle speculative. Arriva persino a far rivelare a Mossack e Fonseca, in un meccanismo inverso a quello con cui questi sono stati smascherati, che lui, Soderbergh, e il suo sceneggiatore figurano quali titolari di conti fittizi esentasse di qualche società offshore delle Isole Vergini. In questo quadro finto come l'ottone era impossibile non ritrovare nei titoli di coda i soliti Peter Andrews alla fotografia e Mary Ann Bernard al montaggio, pseudonimi dietro cui si cela ogni volta il tuttofare Soderbergh che dirige, produce, scrive e mastica cinema in ogni forma, saltando da un progetto all'altro, da uno stile all'altro, da una produzione all'altra con un mestiere irredimibile.

Per quanto ci riguarda, lo aspettiamo presto a prove più riconciliate e persino  mainstream, perché film come Traffic e Erin Brockovich in effetti ci mancano. Ma ci si sente di ringraziarlo per quella Meryl Streep spettinata e struccata che punta lo sguardo verso lo spettatore e la spazzola verso il cielo sullo sfondo di uno studio cinematografico per dire a tutti, Barack Obama incluso, che sarebbe ora di tornare dove si era partiti: affidabilità della politica e messa al centro di ogni ragionamento della persona.