La Manhattan di Woody Allen è avvolta da un alone misterioso e sinistro emanato dai suoi edifici, “high growths of iron, slender, strong, light, splendidly uprising toward clear skies”, queste sono le parole usate da Walt Whitman in Mannahatta, versi che ne cantano la potenza e la bellezza, la stessa ritratta anni dopo da Paul Strand e Charles Sheeler nel documentario Manhatta (1921) in cui riecheggiano le poesie di Whitman.
Anche nel film di Allen l’inconfondibile profilo architettonico mostrato da Strand diviene il protagonista delle riprese, un paesaggio futuribile dal nome indigeno, Mannahatta come ricorda Whitman, si fa premessa di un racconto in cui le note di Gershwin risuonano stemperando l’aria austera degli imponenti edifici.
Lo skyline ritratto in queste pellicole diviene apoteosi della modernità, lo spettatore resta incantato come di fronte a uno spettacolo pirotecnico, questo accade se si resta a debita distanza, sembra dire Allen, le meravigliose albe, i tramonti mozzafiato e i fuochi d’artificio sono l’elemento coreografico sul quale si staglia una foresta di grattacieli, mute costruzioni dentro le quali si celano le nevrosi del genere umano.
La contemplazione poetica del paesaggio diviene anche l’epilogo del film, uno spiraglio d’ottimismo trapela dal dialogo finale esaltato dai raggi di sole che fanno capolino tra le nuvole, un gioco di luci e ombre sul quale lo stesso Strand si sofferma lungamente: “Gorgeous clouds of sunset! Drench with your splendor me or the men and woman generation after me”, scriveva Whitman. I versi di Crossing Brooklyn ferry hanno come protagonista un traghetto che attraversa il fiume portando i passeggeri da una riva all’altra, successivamente collegate dal celebre Brooklyn Bridge, Allen invece si sofferma su un’altra struttura monumentale, il Queensboro Bridge. Il ponte farà da sfondo a una delle scene più famose del film, successivamente riprodotta sulla locandina, in cui vediamo Ike (Woody Allen) e Mary (Diane Keaton) seduti su una panchina in Sutton Place Park assorti nei loro pensieri, due minuscole sagome che quasi scompaiono nell’inquadratura fondendosi con le ombre dei primi chiarori dell’alba sull’East River.
La panchina che sembra a tutti gli effetti un insignificante oggetto di contorno attira la nostra attenzione attivando la sua funzione di “dispositivo scopico”, non solo un dettaglio del set, ma “concentra e concretizza il tragitto che ci ha portato qui (…), visti a partire dalla panchina, sono la percezione stessa e il suo oggetto – il mondo – ad apparire a una luce altra”, così la definisce Michael Jakob nel suo saggio Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell’arte (2014). È attraverso l’analisi di alcuni esempi di panchine rappresentate nei dipinti, nella fotografia, nel cinema o più concretamente situate nei parchi, che l’autore passa in rassegna le peculiarità di questa diffusa struttura, a volte banale nella sua semplicità. Uno strumento indispensabile che favorisce l’osservazione dell’ambiente circostante invitandoci a prendere conoscenza del mondo partendo da un punto di vista obbligato al quale il nostro sguardo si affida, provocando una momentanea sospensione, una pausa che ci porta a estraniarci dalla realtà entrando fisicamente in una zona franca, uno spazio intimo, nonostante la condivisione collettiva, che sollecita silenziose riflessioni interiori en plein air, un luogo appartato in cui sostare in solitudine o in compagnia.
Secondo Jakob è nel finale de L’avventura di Antonioni che ritroviamo l’esemplificazione della doppia natura della panchina, un elemento “di memoria romantica, e più precisamente friedrichiana”, immerso nel paesaggio in cui “la donna si perde nella contemplazione dell’Etna innevato, mentre l’uomo è perduto nella sua interiorità molle e lacrimevole”. Anche Ike e Mary sono sopraffatti dall’incanto che suscita la veduta urbana: “It’s really so pretty when the light starts to come up. Boy, this is really a great city. I don’t care what anybody says. It’s really a knockout”.
Le affermazioni di Ike mettono in luce il ruolo ambivalente della panchina, questa indirizza l’attenzione dei protagonisti verso l’esterno ma allo stesso tempo il momento di raccoglimento porta Mary a interrogarsi sui propri sentimenti; più tardi dovrà vedere Yale, l’amico e rivale in amore di Ike, e questo è un buon motivo per andarsene e interrompere l’idillio.
Sono numerose le pellicole in cui compare una panchina, Antonio Costa la definisce “il più cinematografico dei dispositivi d’arredo urbani” e prende in esame i differenti ruoli che assume all’interno della narrazione nel suo La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock. Il senso delle cose nei film (2014). Solo per citare alcuni casi potremmo partire dal più enigmatico, la panchina vuota del film Tre canti su Lenin di Dziga Vertov (1934), qui la mancanza di un soggetto che animi l’oggetto assume il significato della perdita, divenendo testimonianza tangibile della morte di Lenin; in Dogville (2003), invece, Lars von Trier pone The old lady’s bench in un contesto scarno in cui si attivano “nella mente dello spettatore una serie di relazioni intertestuali legate a questo oggetto-dispositivo”; infine, la panchina di Caos calmo (2008), si rivela essere un vero e proprio “dispositivo scopico”, come spiega Jakob, in cui indugiare focalizzandosi sul proprio passato in relazione a un presente ostile, ordinando “a partire da un qui particolare, il dominio del visibile”, ovvero la propria esistenza.
In questo saggio il valore attribuito alle cose che vediamo nei film diviene oggetto di indagine, mettendo in primo piano i particolari dell’ambiente con cui i personaggi interagiscono e che nel nostro immaginario cinematografico divengono quello che sono. Sono gli oggetti di contorno, come sostiene Jakob, a possedere una manifesta insignificanza capace di renderli ancora più affascinanti, catalizzando su di loro un’inspiegabile attenzione. Oggetti come la mela di Cézanne e l’accendino di Delitto per delitto, sono esistenti-cose “relegati sullo sfondo a tutto vantaggio dei personaggi (…), sono gli elementi del mondo naturale quanto gli artefatti di varia origine che entrano in gioco nella vita dei personaggi, nelle azioni che essi compiono o negli eventi che subiscono”.
La mela di Cézanne fa parte del famoso elenco dei motivi per cui vale la pena di vivere incisi da Ike su un registratore mentre si trova comodamente disteso sul divano, un surrogato da salotto della panchina; dopo Groucho Marx, Potatoe Head Blues, L’educazione sentimentale di Flaubert, Marlon Brando etc…, “those incredible apples and pears by Cézanne” rientrano tra gli “inesistenti-cose” del film, la loro presenza è solo suggerita nel monologo e nonostante questo si può supporre che diecimila persone non l’abbiano dimenticata, come viene detto in Histoire(s) du cinéma (1988-1998) quando a sua volta Godard fa un elenco degli oggetti che si ricordano nei film di Hitchcock: “Ci ricordiamo di una fila di bottiglie, di un paio di occhiali, di uno spartito, di un mazzo di chiavi (…), sono un miliardo gli spettatori che si ricorderanno l’accendino di Delitto per delitto”.
Gli esistenti-cose secondo Costa sono la “vera sostanza” del cinema di Hitchcock, (per Godard il più grande creatore di forme del XX secolo), l’uso di questi oggetti “è a tal punto implicato nel processo formale, padroneggiato dall’autore come da nessun altro, che in ciascuno di essi si cristallizza non solo il senso dell’intrigo, ma anche del suo universo estetico (ed etico)”.
Allen arreda i propri film di oggetti che non si allontanano dal puro ruolo decorativo, dalla funzione principale di rendere credibile il set; citare le mele e le pere di Cézanne, può tuttavia risvegliare, nelle diecimila persone supposte da Godard, il ricordo dell’elenco di Ike in Manhattan, la trama non gira attorno a quelle nature morte (probabilmente viste da Allen al MoMA) ma non si può negare che queste restino impresse nella mente dello spettatore “materializzandosi” in uno snodo cruciale della vicenda, quando il protagonista dopo una sorta di brainstorming compie una scelta che forse modificherà drasticamente la sua vita sentimentale.
Questo accade con Cézanne, ma è la panchina posta di fronte al Queensboro Bridge (da non confondersi con quello di Brooklyn) a caricarsi di senso, non a caso è raffigurata nella locandina più celebre del regista, divenendo il simbolo della città immaginata da Allen che trae ispirazione dai film hollywoodiani con il quale è cresciuto; lui stesso ricorda che la scena del calesse nel parco è stata girata nel luogo esatto in cui James Stewart canta Easy to Love di Cole Porter attraversando i viali alberati, e una selva di panchine, assieme a Eleanor Powell in Nata per danzare (1936).
Il Queensboro Bridge non ha raggiunto la fama del fratello di Brooklyn, lo ritroviamo ne Il grande Gatsby di Fitzgerald o immortalato sullo sfondo di una serie di scatti del fotografo Sam Shaw che ritraggono Arthur Miller e Marilyn Monroe; il ponte viene detto familiarmente 59th Street Bridge, nome che ha dato il titolo a un omonimo brano di Paul Simon e Art Garfunkel; queste sono alcune delle testimonianze, di diversa natura, che gli rendono giustizia.
È curioso vedere che nella realtà, pur sembrando autentica finzione, poco distante dal ponte si trovi una copia della scultura del Porcellino del Mercato Nuovo di Firenze, celebre portafortuna fiorentino (sembra sia stata collocata in quel punto nel 1972), citazione bronzea di dubbio gusto, che arricchisce di significato un luogo che dopo Manhattan ha sicuramente visto proliferare le proprie panchine seguite da un notevole aumento di presenze di Ike e Mary, di cartoline e soprattutto di selfie.