Dopo l’infruttuosa operazione d’esordio, volta a trasporre su schermo uno dei più celebri romanzi a fumetti di Zerocalcare (La profezia dell’armadillo, 2018), Emanuele Scaringi ripropone la volontà di esplorare territori scarsamente sondati dal cinema italiano contemporaneo. Smarcandosi dai paradossi della commedia surreale, per il suo secondo film da regista Scaringi guarda ai codici dell’horror bucolico, intriso in questo caso del folklore di un’Italia meridionale sui generis, mai definita con precisione in termini geografici o culturali.

L’immaginario di riferimento è quello legato alla leggenda abruzzese della Pantafica, un’entità demoniaca che si manifesta nelle ore notturne provocando paralisi nel sonno. Questa è la condizione di cui soffre la piccola Nina (Greta Santi), motivo per cui la madre (Kasia Smutniak) sceglie di allontanarla dal logorante contesto urbano trasferendosi in un isolato borgo di campagna. Come da manuale, il cupo ambiente rurale, anziché lenire i traumi ed esorcizzare le paure, diviene una cassa di risonanza per il male che perseguita la famiglia, esasperato e condotto alle estreme conseguenze. Scaringi si appropria dell’iconografia e delle convenzioni formali appartenenti al genere e tenta mestamente di rivestirle con attributi nostrani, ma il risultato soddisfa solo in parte.

Aderendo pedissequamente al canone dell’horror soprannaturale, Pantafa riesce talvolta a garantire quell’esposizione controllata al pericolo (l’esperienza della paura mediata dallo schermo), che costituisce il liquido amniotico in cui gli amanti del genere amano immergersi. D’altro canto, però, l’approccio supino dell’autore arranca nella costruzione di una mitologia dall’identità solida. Saccheggia episodi e soluzioni visive dai grandi nomi dell’horror recente (i riferimenti più immediati sono al Mike Flanagan di Hill House e all’Hideo Nakata di Ring), ma quando accenna a voler muovere i propri passi in autonomia ecco che non riesce a celare la propria inadeguatezza.

Non che le intenzioni siano disprezzabili, ma appare lampante come l’integrazione tra la verosimiglianza della realtà bucolica e la suggestione ororrifica risulti oltremodo stridente nelle mani di un cineasta ancora inesperto e non in grado di adoperare un’appagante fusione tra le due istanze. E a tal fine non giova di certo la macchinosa e confusa costruzione metaforica che vorrebbe elevare la vicenda ad apologo progressista a tutela di nuclei famigliari non tradizionali. La visione dell’autore si scaglia contro il conservatorismo provinciale che vede una donna sola, proveniente dalla città con una figlia a carico, alla stregua di una vorace cacciatrice di uomini. Uno sguardo polemico che, per quanto condivisibile, risulta gravemente depotenziato da una retorica dozzinale, fin troppo smaccata e finanche irritante a lungo andare.

Sotto un profilo pragmatico Pantafa vorrebbe percorrere il sentiero battuto negli ultimi anni da Paolo Strippoli e Roberto de Feo con le rispettive opere autonome (Piove, 2022 e The Nest, 2019) e con l’ambizioso lavoro congiunto (A Classic Horror Story, 2021), opere che, per quanto non impeccabili, lasciavano trasudare un buon grado di originalità e propensione al rischio. Attributi che si rinvengono a fatica nel secondo lungometraggio di Scaringi, audace negli intenti ma di fatto eccessivamente timoroso e incerto nel riplasmare gli archetipi e giovarsi di una rilettura del canone. Niente più che una tappa interlocutoria, quindi, nel percorso di riavvicinamento ai generi intrapreso dalle giovani forze cinema del italiano.

Nella speranza di sperimentazioni maggiormente esaltanti, per ora ci si limita ad apprezzare l’esistenza di tale intento, il quale ha avuto anche esiti onorevoli, rimanendo però nell’attesa di un reale punto di svolta che possa rendere questi prodotti una presenza endemica nella produzione audiovisiva nazionale.