«Say it's only a paper moon

Sailing over a cardboard sea

But it wouldn't be make-believe

If you believed in me»

Harold Arlen, Yip Harburg, Billy Rose, It's Only a Paper Moon, 1933

C’è un momento fondamentale, secondo chi scrive, nel bellissimo e poetico Paper Moon uscito esattamente 50 anni fa nelle sale: la scena si svolge davanti ad uno specchio e ha come protagonista la giovane Tatum O’Neal nel ruolo di Addie (l’Academy non le vorrà concedere l’Oscar – che avrebbe meritato – come Migliore attrice perché troppo giovane.

Le assegnerà, stabilendo comunque un record, quello a Migliore attrice non protagonista a soli dieci anni): corpo scheletrico e senza forme data la giovane età, dopo aver accennato, in canottiera, a fumare una sigaretta, inizia a rovistare in una scatoletta (appartenuta alla madre purtroppo defunta) e comincia a truccarsi, spruzzarsi profumo addosso, provare un fiocco da capelli. Il giorno dopo abbandonata la sua salopette (e per la quale tutti la scambiano per un “maschiaccio”) è vestita in maniera (secondo i dettami dell’epoca) più “femminile”.

La problematica legata al gender (affermazione, ribaltamento, appartenenza) è sicuramente uno scarto decisivo e altamente germinale del film del 1973 diretto da Peter Bogdanovich, che tenta di analizzare una profonda e cruda rivoluzione sociale attraverso un lavoro solo in apparenza essenziale, legato a meccaniche narrative convenzionali della Hollywood etichettata come “classica”. Tale riflessione trova diversi punti di appiglio in molteplici momenti della pellicola, a cominciare dal titolo («Potresti non fare il film talmente il titolo è bello» sembra abbia detto Orson Welles quando il regista gli chiese un parere in merito), che gioca su una particolare figura retorica e addirittura creandone un caso più unico che raro.

Tradotto alla lettera la “luna di carta” di Bogdanovich non è solo simbologia essenziale del secondo momento decisivo del film, ma anche rappresentazione della leggerezza con la quale si guardano i sogni irraggiungibili della vita. La carta per definizione è un elemento altamente deformante, che si può colorare (attenzione però quella del film è totalmente bianca… quindi da scrivere completamente daccapo), ritagliare, modellare secondo le proprie intenzioni e desideri. Peccato che la luna invece è un elemento fin troppo lontano da poter toccare e plasmare. L’immagine dell’astro color latte trova la sua importanza non solo a metà film (quando la giovane protagonista si fa una foto da sola) ma soprattutto nel finale dove il personaggio maschile ne riceve una copia con tanto di dedica strappalacrime.

Bogdanovich ci dimostra, dall’alto della sua esperienza di critico e cinefilo, di poter usare il cinema per una riflessione non solo diacronica ma allo stesso tempo sincronica. L’anno prima di Paper Moon, il regista aveva diretta Ma papà ti manda da sola? sorta di remake di Susanna! (1938) di Howard Hawks e, nel 1971, in L’ultimo spettacolo aveva raccontato la fine di un certo stile cinematografico attraverso la sua stessa metaforizzazione spettatoriale. Questa caratteristica cinefila (non solo di richiamo ma di analisi e critica del modello di partenza) si manifesta in maniera ancora più deflagrante nella pellicola del 1973 dove la contrapposizione donna-uomo diventa momento di riflessione sulla storia del cinema e dell’intera società americana.

La seconda metà degli anni Sessanta e inizio dei Settanta per il cinema americano sono stati una vera e propria esplosione creativa: attraverso quella che viene, dagli addetti ai lavori, definita New Hollywood, una “nuova ondata” di registi, attori, musicisti, sceneggiatori, inizia a raccontare un altro volto del sogno americano, un volto distorto, deforme, dove oltre alle case a schiera e le famiglie perfette, ci sono la rabbia dei giovani, il terrore verso il diverso, la scoperta di nuove libertà sessuali o l’uso massiccio di droghe leggere.

In tale contesto la figura di Bogdanovich è altamente significativa a partire dal suo Bersagli (1968) dove racconta l’improvvisa follia di un “normale” americano che inizia a sparare sulla comunità (anticipando di anni tematiche ben più complesse): seppur tenendo sempre una certa distanza da tale “movimento”, il regista dimostra di poter elaborare la sua personalissima riflessione di ri-uso del classico per raccontare il contemporaneo (e quindi probabilmente diventando il regista più schierato della nuova ondata).

Paper Moon infatti non è altro che una screwball comedy ribaltata, dove oltre a raccontare una battaglia di sessi, si tende a narrare tutti i difetti dell’America, altra amorfica figura femminile e materna: il film è costellato di queste figure ambigue ma altamente destabilizzanti, che non hanno la capacità di prendere decisioni in una comunità totalmente allo sbando, senza nessun valore, dove la famiglia tradizionale si è distrutta in mille pezzi (si torni con forza al momento della foto al luna park: la protagonista farà lo scatto in totale solitudine in un set - quello sulla luna di carta - dove ci sono solo coppiette o famiglie sorridenti e unite), dove giovani madri muoiono lasciando piccole figlie orfane (si pensi a tutta la metafora della madre patria che lascia “da soli” i suoi figli).

Questa crisi di valori si riflette non solo in alcuni personaggi secondari (uno su tutti la ballerina/prostituta interpretata magistralmente da Madeline Kahn), ma in particolar modo nel rapporto uomo-bambina che è il cuore di tutto il film. Lei seppur giovanissima si veste come un uomo maturo (si pensi a quando in canottiera si pone al centro del letto assumendo una posizione da adulto e fumando tranquillamente, senza tossire, una sigaretta), in totale contrapposizione all’estremo infantilismo e isteria (caratteristica enfatizzata da voci in falsetto vicine al femminile) del personaggio maschile (Ryan O’Neal, padre nella realtà della giovane Tatum). Nonostante occupino la stessa posizione all’interno dell’economia della costruzione visiva, lo sguardo è spesso ad “altezza” bambina, permettendoci una presunta inedita interpretazione e punto di vista su situazioni solo in apparenza complesse.

Tale scontro si enfatizza maggiormente non solo nel momento in cui lui si assilla su un giochino per bambini di semplice fattibilità mentre lei legge giornali pulp di crime story (ribaltando totalmente il “condizionamento culturale” di cui parla ad es. Elena Gianini Belotti in Dalla parte delle bambine) ma soprattutto nel loro scorrazzare continuo per l’America, richiamando una coppia cinematografica di qualche anno prima, quei Bonnie e Clyde di Gangster Story(Arthur Penn, 1967) che tanto sconvolsero l’opinione pubblica (caso vuole che il cappellino indossato dalla piccola protagonista Eddie sia identico a quello indossato da Faye Dunaway nel film di Penn) e richiamando (arrivando a sfiorare in più punti la slapstick comedy) alcuni personaggi chapliniani (Il monello del 1921 ad es.).

Il maschile non è più prototipo di virilità (si torna a Simone de Beauvoir e il suo lavoro Il secondo sesso del 1949) ma segnale di crisi e perdita estrema di valori. Paper Moon infine è un film che racconta l’America anche attraverso i suoi incredibili paesaggi, i suoi scenari desolati e al tempo stesso eloquentissimi, fotografati meravigliosamente da László Kovács, collaboratore non solo di Bogdanovich ma di altri grandi registi forse troppo dimenticati come Bob Rafelson.

Il viaggio e la strada sono, per il cinema della New Hollywood, una componente fondamentale: da Easy Rider (1969) a Cinque pezzi facili (1970), da Duel (1971) a Lo spaventapasseri (1973). Il girovagare dei protagonisti di Paper Moon alla ricerca di una nuova “casa”, una nuova “famiglia”, una “terra promessa” si concretizza nell’attraversamento (finale) di una lunga strada serpeggiante che taglia perfettamente in due una radura deserta e che l’auto sgangherata degli eroi del film percorre con una lentezza disarmante. Una strada che viene “aperta” a metà proprio da un protagonista che si chiama Moses e che di cognome fa Pray (letteralmente “Mosè che prega”).

La funzione pseudo sacrale del padre si trasforma in guida spirituale verso la nuova “famiglia” americana, che i suoi (nuovi) figli attraversano con una complessa, imprecisa e sempre più crescente (citando un altro film importantissimo uscito proprio nel 1973, storia di un’altra coppia allo sbando e alla ricerca della propria – nuova – dimensione familiare) “rabbia giovane”.