Quello che il regista Bong Joon-ho porta in scena nel suo ultimo lungometraggio è un mondo impostato su una struttura verticale. O meglio, è il nostro mondo, quello che affolliamo quotidianamente, ma riproposto attraverso una realtà diegetica compartimentata, in cui gli spazi si fanno indicatori della condizione sociale degli individui che li abitano. In questo modo, l’eloquente esordio raffigurante i membri della famiglia al centro della storia costituisce immediatamente una calzante definizione dello stato in cui versano i personaggi. A Seul, in un’angusta dimora sotterranea, fratello e sorella impugnano i loro cellulari e tendono le mani verso l’alto cercando di agganciarsi alla connessione wi-fi di un appartamento superiore. I genitori li osservano mestamente, ormai rassegnati all’essenzialità che connatura la loro condizione ed all’impossibilità di abbandonare quella residenza suburbana.
Un contesto di partenza che curiosamente rievoca il disagio che portò Un affare di famiglia (2018) di Kore’eda ad ottenere il massimo riconoscimento al Festival di Cannes dello scorso anno, proprio nell’edizione precedente al trionfo di Bong. Ma se il cineasta giapponese poneva come proprio obiettivo la descrizione di un nucleo famigliare tanto caloroso quanto disastrato, il regista coreano vira ben presto verso un tono meno placido, conducendo questo Parasite alla rotta tracciata dal suo cinema recente. Impostando di nuovo un processo di ribellione ad uno status di inferiorità, già fulcro dell’esaltante Snowpiercer (2013), l’autore arma i suoi protagonisti di una scaltrezza cinica e feroce, tramite la quale essi attuano un’ascesa ai livelli superiori della società, così da riscattare la miseria della loro situazione d’origine. Il registro questa volta è però quello inedito della commedia grottesca, che consente all’opera di camuffarsi per buona parte della propria durata, salvo poi sconfinare all’occorrenza su toni più ruvidi e tesi.
Perché in Parasite la dicotomia tra superficie emersa e profondità nascoste ed ignorate non si risolve nella delimitazione degli ambienti, ma acquisisce anche un valore concettuale di straordinaria intensità. Esso permea la forma filmica a più livelli e trova origine in una densa riflessione sull’identità umana. L’incontro tra due famiglie appartenenti a ceti sociali opposti genera quindi, oltre all’inevitabile discorso sulla disparità di classe, un potente affresco riguardante lo scarto che intercorre tra la realtà apparente e la sostanza celata.
Contrapposizione che contamina anche il linguaggio, in cui le tinte pungenti ed armoniose della satira reggono solo fino a quando l’alone mistificatorio fomentato dai personaggi non viene diradato a causa della prepotente intromissione della tragedia. Qui Bong ricorda a sé stesso ed al suo pubblico di essere ancora un minuzioso artigiano della suspense; la solida mano in grado di comporre aspri concentrati di tensione come Memories of Murder (2003) e The Host (2006). Nasce così un intricato labirinto di inganni e macabri svelamenti, nel quale lo sguardo dello spettatore viene però coinvolto e veicolato con un’attenzione maniacale, volta a dipingere ogni passaggio o cambio di rotta tramite sferzate nette, limpide e sempre appaganti. Quando una regia di tale raffinatezza si fonde con una narrazione tanto brillante e fluida, la forza del cinema esplode: il cuore palpita al ritmo forsennato del racconto e la mente viene inebriata, travolta dalla miriade di stimoli che emergono dall’azione instancabile.
In seguito, a mente fredda, arriverà anche il tempo dell’analisi dei significati, l’individuazione dei rimandi all’attualità ed ai luoghi del reale, ma l’immediato sentore è quello della sazietà che pervade sguardo ed animo cinefilo al termine di questa corsa folle e rutilante. Frutto, questo, di un autore che continua a vivere in una favorevole terra di mezzo situata tra le lande sfarzose del cinema commerciale e i lidi aulici dell’autorialità. Emergendo da questo florido scenario, Parasite si palesa come il sigillo che consacra definitivamente la poetica di Bong Joon-ho e quella sensibilità trasversale che gli consente di sperimentare con lucida spavalderia, ridisegnando ad ogni occasione i confini della sua già mirabile produzione.