"Che cos'è l'antropologia?" chiede Parthenope (Celeste Dalla Porta) al professore interpretato da Silvio Orlando in una delle prime scene di Parthenope. La domanda verrà reiterata più volte nel corso del film, ed è il filo rosso che attraversa (neanche tanto nascostamente) l'ultimo film di Paolo Sorrentino.

Se È stata la mano di Dio (2021) offriva allo spettatore una Napoli "vissuta da dentro", filtrata dalla lente autobiografica alla maniera del suo nume Fellini, Parthenope torna sugli stessi temi con uno sguardo diverso, meno intimo ed estremamente più ambizioso. L'impressione è che stavolta Sorrentino miri (quasi melvillianamente) a scrivere il Grande romanzo della città, l'opera-leviatano in grado di esaurire un argomento contenendo in sè tutto il mondo, o almeno quel "mondo" che è Napoli.

Dietro l'apparente caoticità della trama Sorrentino segue una logica precisa, quella dell'antropologia che "bisogna capire cosa significhi", ma che certamente procede per tappe ben identificabili da un punto di vista etnografico: si parte dai miti di fondazione (la dea-ninfa Parthenope che esce dal mare come Afrodite); e si procede a una mappa culturale che copre usanze, riti, umori, "miserie e nobiltà" della napoletanità.

C'è il cibo, la tradizione teatrale (la donna velata di Isabella Ferrari), l'indolenza, la profonda cultura umanistica, la criminalità organizzata nella sua dimensione dinastica (i rampolli dei camorristi costretti a copulare pubblicamente come principi settecenteschi); e c'è ovviamente la profanità del Sacro e viceversa: la bellezza del corpo femminile e il calcio vissuti come riti pagani, un sacerdote-diavolo dall'incontenibile appetito sessuale.

Per capire in che senso lo stile barocco e anti-realistico di Sorrentino possa prestarsi a un'operazione antropologica la cosa migliore è rivolgersi ancora una volta a Fellini. Dal maestro riminese Sorrentino ha imparato l'arte del bozzetto grottesco, che nell'osservazione dell'umanità (italiana) funziona in due sensi: certo trasfigurando il reale in Sogno e Fantasmagoria.

Ma anche, all'opposto, sintetizzando in figure-maschere mitiche dei tratti inconfondibili di realtà: tic, nevrosi, gerghi, inflessioni d'accento, birignao, affettazioni, fisionomie, banalità da bar o da stadio eternate nel carosello di una "danza della realtà" tanto eccessiva quanto paradossalmente autentica. Per questo Fellini è stato tanto amato, perché un popolo ha saputo riconoscersi nei suoi sogni. Per questo Sorrentino oggi è così popolare e così antipatico, perché nei suoi vezzi riconosciamo (più o meno controvoglia) qualcosa di noi.

Certo non è detto che il suo cinema - neanche un film bello e interessante come Parthenope - vada accettato a scatola chiusa. Se oggi Sorrentino è chiaramente il maggior costruttore d'immagini italiano (basta vedere cosa fa con l'estetica dei Faraglioni, la più abusata e "pubblicitaria" al mondo, nella prima parte) i suoi film continuano a peccare di una verbosità arrogante (l'insopportabile personaggio di Gary Oldman) che però stavolta l'autore ha il coraggio di tematizzare e prendere in giro, inscrivendo anche quella - anche sé stesso - nel suo catalogo partenopeo.

Così come lascia scettici, ma anche affascina, la sua voglia di affrontare per la prima volta di petto il problema spesso rinfacciatogli del femminile (della sua assenza/subordinazione/riduzione a oggetto). In questo senso la Parthenope della brava Dalla Porta è un personaggio affascinante ma contraddittorio: Sorrentino sembra ancora incapace di interessarsi a una donna non iperbolicamente bella; ma stavolta le accorda dignità (perfino superiorità!) intellettuale, e con mossa astuta ritrae progressivamente lo sguardo "poeti-concupiscente" della prima parte, facendone sempre più il Soggetto della visione, e approdando a un coming of age culturale che per assurdo non casca troppo lontano da Povere creature!.

Starà al pubblico decidere se non è ancora abbastanza, o se il sangue di San Gennaro - per questa volta - si è sciolto.