Recenti iniziative di restauro stanno contribuendo alla conservazione e alla circolazione di gran parte del patrimonio cinematografico africano. La cinematografia africana è stata penalizzata nel corso degli anni dall’esclusione dal circuito mainstream, molto più rispetto ad altre cinematografie non occidentali (si pensi al cinema iraniano). Nel corso dei decenni il cinema africano è stato al centro di molti dibattiti, soprattutto in contesti festivalieri o accademici, grazie soprattutto a studi che ne hanno analizzato le peculiarità storiche, estetiche, economiche e sociali e che ne hanno garantito la visibilità.

Tra i recenti restauri se ne possono citare alcuni di grande interesse. La Janus Film, attraverso Criterion Collection, ha dato nuova vita al senegalese Ceddo (1977) di Ousmane Sembène, uno dei maestri del cinema africano. Opera di altissimo livello, fu censurata in Senegal fino al 1984: il motivo ufficiale era legato alla polemica intorno al titolo, che secondo l’allora presidente andava scritto diversamente. In realtà, Ceddo fu soggetto alla censura per via di ciò che rappresentava, una denuncia nei confronti del regime islamico che aveva scardinato la struttura politica tradizionale del Senegal e aveva spianato la strada al colonialismo euroamericano.

Ceddo è un film molto minimale nella messa in scena, con un’estetica evidentemente teatrale, che racconta una vera e propria epopea ambientata secoli fa. I Ceddo, “il popolo del rifiuto”, sono i protagonisti di questa storia di ribellione nei confronti del potere dell’Imam, antagonista spietato, che viene infine sconfitto dall’unico personaggio femminile, la principessa Dior Yacine (interpretata da Tabara Ndiaye).

La Cineteca di Bologna ha avuto un ruolo centrale nel restauro di un altro film, Yam Daabo (1986), diretto dal burkinabé Idrissa Ouédrago. Primo lungometraggio del regista, presenta uno stile estremamente personale e caratterizzato da inquadrature fisse, profondità di campo e un gusto particolare per la frammentazione della scena. Yam Daabo, che significa “la scelta”, racconta la decisione di una famiglia di contadini di lasciare la propria città e partire alla ricerca di nuove terre: la storia, anche qui estremamente essenziale, finisce per svolgere una funzione quasi pedagogica nei confronti di chi guarda.

Il continente africano viene raccontato anche dal di fuori di esso, con due film come Concerto pour un exil (1968), dell’ivoriano Desiré Ecaré e Bushman (1971), di produzione statunitense e diretto da David Schickele. Desiré Ecaré giunse a Parigi nei primi anni Sessanta dove lavorò prima in teatro con la troupe Le Toucan, per poi esordire nel cinema proprio con Concerto pour un exil. Quest’ultimo è il primo film di una trilogia (proseguita poi con À nous deux, France del 1970 e Visages de femmes  del 1985) che si prometteva di raccontare il senso di alienazione dei giovani africani che vivevano in Francia alla fine degli anni Sessanta. Durante i suoi trenta minuti, Concerto pour un exil mette in scena numerose situazioni che vedono protagonisti i giovani personaggi nella loro vita di tutti i giorni. L’indugiare sui dettagli e sulla quotidianità dà vita a un racconto profondamente umano, in cui il tema del viaggio e del ritorno verso casa ha un ruolo centrale.

Questo stesso tema torna anche in Bushman, film a metà tra il documentario e la fiction, che vive di molte influenze dalla Nouvelle Vague e dal cinema europeo, ma anche dai maestri africani quali Sembène: un giovane nigeriano di nome Eyam che vive a San Francisco incontra nel corso delle sue giornate numerosi personaggi che, con i loro comportamenti e le loro parole, rappresentano l’America razzista e bigotta degli anni Sessanta.

Bushman critica i giovani americani che guardano con pregiudizio e retorica alla comunità afroamericana. La produzione del film fu interrotta dall’arresto immotivato di Eyam da parte della polizia statunitense, a cui seguì un lungo periodo di carcere. Questa tragica storia viene raccontata negli ultimi minuti di Bushman, che diventa così definitivamente una terra di confine, in cui si fondono insieme realtà di denuncia e finzione.