Con Peter von Kant, film d'apertura della settantaduesima Berlinare e caleidoscopico esperimento di meta-testualità intriso di riferimenti meta-filmici, il cineasta francese François Ozon rende nuovamente omaggio ad uno dei suoi miti ispiratori, l'icona della corrente nota come Nuovo cinema tedesco, Rainer Werner Fassbinder, a distanza di 22 anni dalla sua trasposizione cinematografica di Come gocce su pietre roventi, un'opera teatrale del regista bavarese.

Il film è una sorta di singolare remake liberamente ispirato al film culto Le lacrime amare di Petra von Kant, la quintessenza del melodramma fassbinderiano realizzato nel 1972 e in gran parte autobiografico, che narrava la storia di un amour fou, un menage-à-trois tra una ricca stilista (Petra), la sua assistente (Marlene) e la sua ultima fiamma-musa (Karin), dall’impostazione marcatamente teatrale in stile kammerspiel (caratterizzato dalla canonica unità di tempo-spazio-azione, un proscenio, pochi attori e l’asettica osservazione dei personaggi).

Ozon, che ha definito la sua opera "un film sulla passione, sul controllo nelle relazioni d’amore e creative che può esercitare un artista potente e affermato sulla sua musa" si addentra così nell’universo di Fassbinder, evocando la quotidianità dei suoi ambienti plastici e disperati, cercando di restituire, nel rapporto tra vita e cinema, la storia ed il coraggio di un artista iconoclasta dichiaratamente gay ed estremamente critico dei valori borghesi, morto prematuramente all’età di 37 anni.

Sovrapponendo esplicitamente la biografia del regista tedesco alla finzione, e creando un cortocircuito tra immaginazione e storia, Ozon trasforma la protagonista Petra in Peter (interpretato da Denis Ménochet), un regista di successo dal fisico corpulento che vive col devoto e muto assistente Karl (Stefan Krepon), in un ambiguo equilibrio servo-padrone di cui è vietato mutare la struttura. Tutto fila secondo un copione prestabilito finché un giorno, Sidonie (Isabelle Adjani, in forma brillante), una fascinosa attrice che gli è debitrice del successo gli presenta Amir (Khalil Gharbia) di cui Peter s’invaghisce immediatamente trasformandolo subito nel suo nuovo oggetto di desiderio, fino alla inevitabile parabola di una relazione autodistruttiva che viene sublimata dalla macchina da presa.

Cedere alla umana tentazione del confronto tra i due film sarebbe probabilmente un errore poiché il cineasta francese utilizza la cifra che spesso lo caratterizza, completamente diversa dal melodramma di Fassbinder, virando di fatto verso la commedia e disattivando, attraverso le riprese in esterno della fotografia di Manu Dacosse, la claustrofobica solitudine della stanza da letto di Petra che trasuda in ogni fotogramma del film del 1972.

La sequela dei tableaux vivants, la ricerca ostentata dell’artificio, l’osservazione asettica e distante dei personaggi che servivano a Fassbinder per avvicinarsi alla verità (rendendo il suo film un capolavoro immortale del cinema mondiale) lasciano il posto in Ozon a una estetica sovrabbondante e colorata dal gusto francese resa con la scenografia opulenta di Katia Wyszkope, in perfetto accordo con i personaggi tragicomici del film più riusciti, come l’amica attrice Sidonie, meravigliosamente camp, e il silente ed impassibile Karl, scalzando con ironia il nichilismo tedesco che contestualizzava l’originale.