Con una rivolta, la parte oppressa e dominata di una comunità tenta di prendere la parola. Sedare una rivolta con la violenza significa allora annientare ogni istanza riformatrice, azzerare il contraddittorio e, in ultima analisi, privare le minoranze del diritto di parola. È questa la chiave di lettura scelta da Mike Leigh per raccontare il massacro di Manchester del 16 agosto 1819. Per descriverne l’atrocità, i cronisti del tempo lo avrebbero presto rinominato Peterloo, sul calco di Waterloo: un dispendio altrettanto vergognoso di vite innocenti e, al contempo, un pari sfoggio di potenza del braccio armato della monarchia britannica.

La cronaca accurata di Leigh, necessariamente corale, necessariamente filologica, si muove su un doppio binario: da una parte la raffigurazione il più precisa possibile delle condizioni materiali dello scontro sociale – la rivoluzione industriale, la (mancata) riforma agraria, l’insorgere della classe operaia come effetto collaterale di un settore manifatturiero in piena espansione – dall’altra l’insieme delle pratiche discorsive e delle parole nate per rendere conto di tali mutamenti. Non a caso siamo di fronte ad un film parlatissimo, in cui il discorso diventa sintomo e strumento di perpetuazione di un’asimmetria di potere chi si apre a infinite stratificazioni: dalla retorica barocca e ingarbugliata di corte all’afasia balbuziente di un reduce di guerra, a ogni scelta lessicale e inflessione della voce corrisponde una diversa coscienza politica e individuale.

Il racconto si dispiega così in un susseguirsi di dialoghi e comizi, in cui la parola è ora funzionale alla coesione sociale – unire le masse, agitarle e mobilitarle alla rivolta, più o meno violenta – ora strumento di annichilimento dell’altro. Persino in un gruppo di suffragette, oppresse tra gli oppressi, c’è posto per una prevaricazione latente a colpi di ipotassi e figure retoriche. La messa in scena precisa, il gusto pittorico di una tavolozza cromatica virata al seppia, sono solo strumentali a questa visione, che trova in Peterloo il suo compimento.

Fin dallo scontro stridente di accenti di Segreti e bugie, passando per i rantoli gutturali di Turner, la riflessione di Mike Leigh sulla lingua trova qui il suo prodotto più maturo e complesso, tanto da tradursi in dispositivo drammaturgico: in un profluvio verboso di agoni retorici e arringhe motivazionali, il film è in fondo un’infinita escalation verso un unico discorso che non ci sarà dato sentire (come a dire: parlare è un diritto, ma anche poter ascoltare). La massima, naturalmente, è attualizzabile e universalizzabile: come sempre, nel cinema civile fatto con coscienza e sensibilità.