“Sono le minuscole cose di ogni giorno” dice uno dei protagonisti di The Meyerowitz Stories, facendo un bilancio del suo rapporto col padre, rimpiangendo non sia mai accaduto qualcosa di orribile e imperdonabile per cui potercela avere con lui. C'è quasi tutto della poetica di Noah Baumbach, in questa battuta: le minuzie della vita quotidiana, i rapporti familiari, la tortuosità delle relazioni affettive.

Classe 1969, degno esemplare della Generazione X, Baumbach nasce a Brooklyn, New York, da due scrittori e critici cinematografici. Presto inquadrata fra quelle dei vari autori post-alleniani o esponenti del mumblecore, merita invece uno sguardo più attento la filmografia per molti versi imperfetta (reperibile quasi totalmente sulle più comuni piattaforme streaming) di un regista che ha chiamato il figlio Rohmer e il cui film preferito è “Jules & Jim, ma anche E.T.”. Idolatrato in maniera piuttosto acritica da un certo pubblico amante dell'indie e del citazionismo colto, trova detrattori altrettanto tranchant fra chi lo accusa di una certa inconsistenza di fondo, o prova un senso di fastidio di fronte a quelle che a taluni paiono nevrosi da upper class intellettuale-bohemienne.

Partito in ascesa con Scalciando e urlando del 1995, un piccolo cult da studenti universitari con dialoghi ostentatamente brillanti e un certo debito nei confronti dello spirito del tempo di allora, fra Slacker e Giovani, carini e disoccupati dell'amico Ben Stiller, Baumbach si è poi incagliato su una commedia sentimentale non indimenticabile come Mr. Jealousy (1997) ma soprattutto sulle traversie produttive di Highball (1997) che, incompiuto e da lui disconosciuto, è stato poi distribuito sul mercato home video per la sua evidente costernazione. Otto anni di silenzio, con solo un corto nel mezzo, e poi eccolo ricomparire con Il calamaro e la balena (2005): il suo film più dichiaratamente autobiografico a tutt'oggi, il racconto di un divorzio e delle sue conseguenze su due figli (con il maggiore dei due, interpretato da Jesse Eisenberg, della stessa età di Noah all'epoca del divorzio dei suoi), premiato da un certo successo di pubblico ma ancor più di critica, sino alla candidatura all'Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

La sua cifra stilistica di racconto qui c'è già tutta: Baumbach rifiuta la classica struttura in tre atti e la plateale evoluzione di percorso dei protagonisti, e adotta il maggiore mimetismo possibile alla vita reale. Così, ne Il calamaro e la balena come in ogni suo film successivo, i suoi personaggi vengono seguiti per un tratto di vita, per qualche verso significativo, e poi lasciati di nuovo alla loro quotidianità e, realisticamente, a quello che erano sempre stati o a uno stato solo lievemente più riconciliato del precedente. Per questo le sue storie sono sempre minimali e in alcune sue opere non accade quasi nulla, alla fin fine. È facile scordare i finali dei film di Baumbach: per i detrattori del suo stile, sono finali indecisi a tutto, per i sostenitori, sono magnificamente mimetici rispetto al reale.

Raro che Baumbach drammatizzi col sonoro o conceda una scena madre. In quest'ultimo caso accade di solito per grandi litigi familiari, o per personaggi in forte crisi personale che arrivano a imbarazzare se stessi in pubblico. Così come, nonostante le sue finissime capacità di scrittura, serve sporadicamente ai suoi attori importanti monologhi (ma a Laura Dern in Storia di un matrimonio ne ha dato uno, sulle diverse aspettative della società su madri e padri, che l'ha portata dritta dritta all'Oscar). Campione nel far apparire semplice quello che è in realtà complicato da portare in scena, i suoi personaggi parlano di poco o nulla, della quotidianità. Eppure il loro sovrapporsi, le minime trascuratezze l'uno verso l'altro, il tornare a parlare appena possibile di sé ma soprattutto della propria visione di se stessi raccontano di nodi irrisolti e di relazioni affettive quietamente deformate.

In particolare nei due film successivi all'ottenimento dei primi grandi riconoscimenti, Il matrimonio di mia sorella (2007) e Lo stravagante mondo di Greenberg (2010), Baumbach ha osato una sgradevolezza che non ha poi sinora ripetuto, non sappiamo se per via di un rasserenamento personale (Greta Gerwig entrò nella sua vita proprio sul set dell'ultimo dei due) o più prosaicamente per non incorrere in nuovi insuccessi, dato che entrambi furono rifiutati con antipatia sia dal pubblico che dalla critica. Sono opere pervase da un'impietosità nei rapporti fra i personaggi, con una forte presa di distanza nei loro confronti e un senso di mancanza di speranza per le relazioni umane. Tali fattori hanno certamente contribuito all'insuccesso di questi film, che invece hanno motivi di interesse nella costruzione di psicologie affatto banali e, nel caso de Il matrimonio di mia sorella (criminale il titolo italiano, l'originale era Margot at the Wedding) nell'ambientazione azzeccata in una Long Island gelida quanto i personaggi.

Per quanto il padre recriminatore seriale de Il calamaro e la balena non fosse da meno, resta il senso di un pessimismo cosmico di Baumbach in questa fase, tale da non concepire nulla di buono in rapporti umani oscillanti fra il ringhioso e il condiscendente, e tale da far chiedere all'epoca a Roger Ebert e altri se il regista e scrittore non fosse cresciuto in simili malsani climi familiari. Sempre attento a rintuzzare le plurime insinuazioni di autobiografismo delle sue opere, Baumbach ha più volte parlato di elementi “personali” senza voler mai elaborare troppo, certo è che anche dopo questa fase più pessimistica, la sua poetica continua ancor oggi a includere temi come la competizione fra individui, anche e soprattutto quelli legati da forti legami affettivi, e il voler essere al centro della considerazione altrui, entrando quindi inevitabilmente in conflitto con chi ha più successo, economico o personale che sia.

In fondo è da una vita, e da una intera filmografia, che Baumbach si interroga sul fatto che gli adulti, o cosiddetti tali, non lo siano mai veramente. Se i protagonisti della sua opera prima, Scalciando e urlando, erano laureati che non avevano idea di come comportarsi da grandi e facevano di tutto per rimanere a cullarsi all'università, e quelli di Giovani si diventa (2014) mettevano in scena la propria ambizione a non crescere come tema principale, anche quelli dei suoi ultimi The Meyerowitz Stories (2017) e Storia di un matrimonio (2019) sono del tutto irrisolti, alle prese non solo con fallimenti e conflitti familiari, ma con la vaghezza assoluta della propria identità. Sono personaggi che adorano guardare fuori dai finestrini: seduti su un'automobile o un bus, lo fanno spesso. Sempre in qualche modo curiosi del mondo al di fuori, che dev'essere però filtrato da un guscio difensivo.

Baumbach è molto abile nel gestire la rappresentazione di vicinanze e distanze fra le persone, eppure l'essere uno stimato creatore di personaggi rischia di mettere in secondo piano le sue qualità registiche. Forse per la capacità anzidetta di far sembrare tutto semplice e naturale, non ci si accorge dell'elevata stilizzazione dei suoi piani sequenza, e del suo occhio per gli spazi vuoti, che siano angoli disadorni delle case o paesaggi rarefatti. Ed è forse questo l'aspetto che lo distanzia in maniera più macroscopica da Woody Allen, con cui condivide la predilezione per artisti e intellettuali ebrei newyorkesi, che sfruttano gli altri per le loro opere e non fanno che citare altri artisti e altre opere, ma che al suo contrario li fa esistere quasi solo in spazi pieni, affollati, urbani.

Allo stesso modo il frequente utilizzo della camera a mano rimanda istintivamente al mondo alleniano e a un certo cinema indipendente iperrealista, ma Baumbach in realtà ha fama di essere un meticoloso che concepisce sin dal principio la sceneggiatura come un unicum con regia e montaggio, affidato da Frances Ha in poi sempre nelle mani attente di Jennifer Lame (che peraltro si sono meritate la fiducia di Kenneth Lonergan per Manchester by the Sea e di Christopher Nolan per Tenet). Il risultato sono scene di grande spigliatezza che derivano invece da una pianificazione e da un cronometraggio meticolosi, e copioni seguiti fedelmente che risentono sì in fase di scrittura delle influenze degli attori ma che dell'improvvisazione del mumblecore non hanno pressoché nulla.

Gli resta del cinema indipendente un certo a-finalismo impressionistico, una prevalenza dei personaggi sulla trama, ma l'unico film davvero mumblecore di Baumbach, Frances Ha (2012), è più che altro il fortunato frutto di un periodo in cui Baumbach voleva girare senza che nessuno ne fosse al corrente, forse per la pressione degli insuccessi precedenti, forse perché il progetto e la sceneggiatura si erano trasformati in un corteggiamento fra lui e Greta Gerwig, allora fra le principali interpreti della scena indie, come ammesso successivamente da quella che è poi diventata la perfetta it-couple hipster/creativa del cinema statunitense.

E se Frances è l'amabile e ottimista creatura della coppia, nata a Sacramento come Gerwig, con i genitori interpretati dagli stessi genitori dell'attrice, ma laureata al Vassar College di Poughkeepsie come Baumbach, e via discorrendo, è pur vero che il regista e sceneggiatore spande elementi autobiografici a man bassa in ogni sua opera, pur rifiutandone poi le interpretazioni più letterali e pedisseque. Eppure se Giovani si diventa e Mistress America (2015) sono due commedie che riflettono in maniera piacevole e intelligente su un'età di mezzo corrispondente a quella anagrafica di Baumbach, senza però suggerire nulla di troppo diretto, in altri casi la corrispondenza realtà/finzione si fa più stringente: The Meyerowitz Stories segue le dinamiche dei figli quando un padre esigente e accentratore finisce in ospedale, proprio successivamente alla morte del genitore del regista, e Storia di un matrimonio è un racconto ispirato al suo reale divorzio da Jennifer Jason Leigh, dal quale ammette di avere per una volta “perso la distanza richiesta”.

Senza arrovellarsi inutilmente su corrispondenze che non aggiungerebbero nulla all'interpretazione, basti concludere che Baumbach adora portare in scena il suo mondo personale: non solo ama lavorare con gli stessi collaboratori (citatissimo il suo rapporto con Wes Anderson, cui ha fatto da sceneggiatore e che è stato suo produttore) e attori (le stesse Greta Gerwig e Jennifer Jason Leigh, ma non si possono non citare in primis Ben Stiller e Adam Driver), ma è riuscito a trascinare sullo schermo anche l'amato Peter Bogdanovic, il co-regista del suo documentario De Palma (2015), Jake Paltrow, e nientepopodimeno che Scott Rudin, suo abituale produttore, noto a Hollywood più per la potenza e la prepotenza, che per l'amabilità nel prestarsi a fare da comparsa.

Pare che tutto riesca a fare, Noah Baumbach. Forte di una certa “normalizzazione emotiva” delle sue ultime opere rispetto a quelle del passato, baciata da un corrispettivo incremento dei pubblici riscontri, prosegue per la sua strada ormai aurea, avendo limato certe asperità autoriali eppure mantenuto la sua precisa linea distintiva, senza ripiegare sull'essere solo un brillante affabulatore, come ha dimostrato di riuscire a fare senza problemi co-sceneggiando Madagascar 3 – Ricercati in Europa (2012) in una fase complicata della sua carriera. Restano sullo sfondo un po' nascosti alcuni tratti vagamente ossessivi: fare indossare a Jeff Daniels la vecchia giacca di suo padre per interpretarne il ruolo, o mettere Mickey Sumner, che in Frances Ha era l'amica fraterna della protagonista Greta Gerwig, in Mistress America nei panni della ragazza con cui la stessa Gerwig viene scambiata per strada, un ruolo di circa due secondi. Ma sono quelle cose che, raggiunto un certo grado in fama, in fondo contribuiscono alla mitologia del personaggio.