Nel mondo di Piccolo corpo facciamo ingresso attraverso l’onda sonora: un coro femminile che ci accoglie sulla spiaggia dove Agata, prossima a partorire, consegna ritualmente il proprio sangue all’acqua del mare. Il ciclo naturale che assume la forma di una liturgia cantata: due mesi dopo la ballata favolistica di Re granchio, ecco un altro film che trova nella cultura folkloristica una lettura personale e che usa il canto rurale come via di accesso verso ecosistemi inesplorati. È forse il principio di un nuovo, curioso filone del nostro cinema d’autore, un piccolo universo filmico intento a recuperare il passato e a ridargli corpo e voce con l’impeto della giovane autorialità – di cui la triestina Laura Samani, con il suo primo lungometraggio, si fa mirabile enunciatrice.

Lo slancio canoro accompagna Agata nella sua avventura attraverso le gelide montagne friulane, su cui l’eroina si inerpica per compiere un miracolo: riportare in vita la figlioletta nata morta, il tempo necessario per battezzarla, e salvare la sua anima dal Limbo in cui è persa. Un incantesimo impossibile in un santuario nascosto fra i monti: è materiale favolistico quello a cui Samani attinge per costruire il proprio racconto, che vive di una tensione quasi sacrale verso la propria scenografia paesaggistica. Tra i boschi delle terre di confine la favola si trasforma allora in canzone luttuosa, delicatissima e lineare, e trova spessore drammatico nella dimensione naturale e terrena attraverso cui il film scorre via, limpido come un ruscello.

Piccolo corpo sgorga, per l’appunto, dalla corporeità, dalla fisicità elementale del mondo che mette in scena; da qui parte poi alla ricerca dell’ipotetico Oltre, del sopra-naturale. Una dicotomia incarnata in Agata, mater dolorosa costretta a fare i conti con la natura matrigna, che dona (l’acqua della vita nell’incipit) e che riprende (la terra della sepoltura) senza offrire spiegazioni. Il suo viaggio è frutto di un eroismo viscerale, un’espansione del suo istinto materno ferito a tradimento; è anche, però, una missione disperata, perché ad animarla c’è un timore religioso da cui è impossibile emanciparsi. Un tragico moto emozionale che è insieme istintivo e spirituale, animalesco e divino: la metafisica di una maternità mancata.

Il viaggio della protagonista è circoscritto nei confini del corpo suo e di quello della figlia, che Agata trasporta con sé in un cofanetto di legno – una delle immagini filmiche più candide e risolute degli ultimi tempi. Il racconto di Piccolo corpo passa così attraverso una esperienza di femminilità in itinere, in un viaggio picaresco all’interno di una cultura dove la maternità è soffocata e incompresa: il desiderio di Agata non viene capito dalla sua comunità di appartenenza, tutta piegata sulle proprie credenze sterili e paurose – “non si dà un nome alle cose morte”. Lei, invece, guarda oltre, cerca una fede che superi la natura, che sia in grado di accogliere il suo lutto e dare pace all’anima-corpo suo e della sua bambina: seguendo da vicino il suo itinerario, Samani mette in scena un martirio silenzioso e una piccola rivoluzione spirituale.

È una visione che l’autrice restituisce in forma di quadretti, di incontri lungo la strada, abbozzando visioni di una femminilità a turno devota e rivoltosa. Le vere alleate di Agata nel suo percorso non sono le pie custodi delle norme religiose: sono le reiette, le incomprese che la società ha messo da parte. La sanguigna Lince, che affianca Agata durante il viaggio, è una figura emblematica di questa femminilità al margine, una creatura diseredata dalla propria famiglia che vive nel solco fra i due sessi, al crocevia fra crudeltà animale (nomen omen) ed empatica sorellanza: toccherà a lei compiere il gesto estremo di comprensione materna di cui Agata è stata ingiustamente privata.

Il tocco delicato del nuovo realismo magico di Rohrwacher è il metro di paragone più scontato, ma Piccolo corpo si sporge verso il proprio universo narrativo in modo del tutto personale, intessendo con la sua natura invernale un legame intimo e originale, di terrestre concretezza: senza mai adeguarsi a un’arida maniera, Samani ha creato un’opera incantata sulla ricerca del magico nel reale, sulla necessità di scardinare col fantastico le tenaglie di madre natura. Solo al termine del viaggio Piccolo corpo osa scomporsi, quando la realtà lascia lo spazio ad un agognato, impossibile frammento di irreale: il fremito impercettibile ed essenziale di un film che, è il caso di dirlo, respira come una vita rinata.