In un’edizione del festival cinematografico più antico del mondo che ancora una volta si mostra particolarmente interessato alla rappresentazione di figure femminili (privilegiando quest’anno anche lo sguardo autoriale delle donne, con otto registe inserite nella selezione principale), il cineasta ungherese Kornél Mundruczó si inserisce nell’ampio coro di voci in una maniera non del tutto dissonante, ma di certo dirompente nella sua carica espressiva. Il dolore di una giovane madre che si trova a dover affrontare il più lacerante dei lutti, trovandosi ad assistere inerme alla tragedia della vita che abbandona la figlia appena data al mondo, si trasforma nel materiale narrativo su cui impostare un lento e graduale percorso di autodeterminazione.
Una parabola di emancipazione che di per sé non mostra tratti inediti, ma che genera un implacabile attrazione grazie all’aderenza epidermica dell’occhio registico al corpo sofferente della protagonista Martha Carson. Siamo ancora nelle primissime fasi di questo gelido melodramma contemporaneo, quando in maniera sommessa e distaccata vengono inscenate le prime fasi del travaglio casalingo di Martha. Soffermandosi sulla manifestazione del dolore fisico che si acutizza inesorabilmente e sulle docili premure concesse dal compagno Sean (Shia LaBeouf), la macchina da presa riduce le distanze fino ad annullare la sua presenza.
Indugiando con un’attitudine quasi morbosa (senza stacchi evidenti di montaggio) sulle manifestazioni fisiologiche del parto, interrotte solo dal pedinamento saltuario di coloro che vi assistono, Mundruczó risucchia l’attenzione catalizzandola sul linguaggio corporeo di Vanessa Kirby, chiamata qui ad una prova estrema di immedesimazione attoriale. Per un tesissimo piano sequenza di quasi mezz’ora, in cui i momenti di pathos e di distensione sono mirabilmente sottolineati dalla colonna sonora di Howard Shore, i tratti della figura femminile diventano l’universo diegetico nel quale lo spettatore è chiamato ad immergersi. Un assorbimento emotivo destinato a ricadere sul resto del film, instaurando inevitabilmente un legame in grado di contaminare la percezione degli eventi successivi.
Evitando di scivolare nel baratro di un approccio ricattatorio, Pieces of a Woman si impone con nient’altro che la propria limpida ricerca di un racconto attinente al reale: un procedimento ellittico che copre un periodo di alcuni mesi dei quali vengono selezionati pochi ma significativi frammenti di vissuto ordinario. In una manciata di scene adagiate su una densa scrittura e sostenute da interpretazioni lodevoli (tra i non protagonisti spicca un’eccellente Ellen Burstyn), vengono chiariti i risvolti problematici che su più livelli accompagnano lo strazio della perdita.
Un nucleo famigliare opprimente, una relazione incapace di reggere ad un colpo di tale ed inattesa portata, per poi riversarsi sempre sull’intimo e afasico vuoto lasciato da una maternità mancata. Martha deve quindi fare i conti tanto con la propria sofferenza, quanto con le interferenze di un mondo circostante che le chiede di “alzare la testa” e andare avanti, individuare un colpevole nei confronti del quale attuare una sanzione riparatrice (il processo nei confronti dell’ostetrica, accusata di avere taciuto riguardo alle complicazioni sopraggiunte durante il parto).
Richieste di atteggiamenti razionali e di piccole rivincite terrene che si scontrano con l’inscalfibile muro di apatia di un’anima spezzata, che non può trovare pace nella caotica riparazione di ciò che per sempre rimarrà distrutto, ma la cui unica fonte di sollievo risiede nella consapevolezza di ciò che si è stati in grado di ottenere. La rinascita di Martha, la rivendicazione di sé stessa, passa attraverso la presa di coscienza che, per quanto effimeri, i miracoli possono accadere e che nella sana preservazione del loro ricordo essi possono costituire un terreno fertile al germogliare di nuove felicità.
Al suo esordio americano, Mundruczó non cede alla tentazione di ampliare ulteriormente la portata del suo cinema, che già nel precedente Una luna chiamata Europa (2017) aveva sconfinato nell’area del kolossal, ma anzi la riduce ai minimi termini per concedere la giusta risonanza ad una storia autobiografica di sentimenti incomunicabili, qui ricomposti, concentrati e restituiti in tutta la loro disarmante purezza.