La potenziale polisemia e il fascino visivo di Le avventure di Pinocchio di Collodi lo rendono uno dei testi più trasposti dalla letteratura al cinema. Senza ripercorrere l’intera lista dei suoi adattamenti, basta pensare che dalla fine del 2019 ad oggi abbiamo avuto ben tre trasposizioni cinematografiche del romanzo (Garrone nel 2019, Zemeckis e del Toro nel 2022).

Il nuovo film di Guillermo del Toro e Mark Gustafson, distribuito da Netflix, riprende molti dei caratteri e delle situazioni provenienti dalla tradizione cinematografica di Pinocchio, soprattutto dal classico Disney del 1940 – ad esempio per quanto riguarda l’importanza narrativa riservata al grillo parlante, che nel romanzo originale, invece, ha un ruolo minimo. Tuttavia è un film che gioca una partita a parte rispetto alle altre pellicole, in quanto si tratta di una delle rivisitazioni più personali mai viste fino ad oggi. Non sono mancati negli anni adattamenti che rileggevano il testo di Collodi, lo stesso sceneggiato del 1972 di Luigi Comencini cambiava drasticamente il concetto di trasformazione da burattino a bambino; Pinocchio di Guillermo del Toro, però, va addirittura oltre e arriva a ribaltare completamente il significato dell’opera originale.

Del Toro ammette la propria infedeltà a Collodi già dai primi minuti, mettendo in scena la morte di un personaggio chiamato proprio Carlo, liberandosi quindi di quel debito nei confronti dell’autore che invece il cinema italiano non ha mai avuto il coraggio di abbattere totalmente. È il contesto in cui è ambientata la storia, l’Italia fascista della seconda guerra mondiale, a imporre la rilettura della storia. Pinocchio qui non è più l’archetipo del bambino disobbediente che deve essere educato, ma è una figura che sfugge al controllo del regime, un “libero pensatore” viene detto ad un certo punto, qualcuno che, sfidando per sua natura ogni logica razionale, sfugge all’ordine previsto dai gerarchi.

Questa scelta drammaturgica, se da un lato rappresenta un tratto tipico del cinema di del Toro, che di frequente mescola la Storia, in particolare quella legata a periodi bellici, con narrazioni fantastiche – si pensi ad esempio a La spina del diavolo (2001) e Il labirinto del fauno (2006) – dall’altra consente di ripensare il significato di disobbedienza che caratterizza il burattino di Collodi.

Così come Pinocchio si ribella alla disciplina imposta dal regime, allo stesso modo l’inclinazione al ribellarsi è qualcosa che accomuna molti dei personaggi. Questa versione della storia è in generale un racconto di disobbedienza verso i padri, reali o figurati, che nella maggior parte dei casi rappresentano un esempio da cui allontanarsi: Pinocchio, che disobbedisce a Geppetto – un Geppetto estremamente umanizzato – che lo vorrebbe uguale al suo deceduto Carlo; Lucignolo che disobbedisce al padre fascista; infine Spazzatura, personaggio originale che si ribella ad un altrettanto originale Conte Volpe, fusione tra la volpe e Mangiafuoco. Pinocchio diventa non più un cattivo esempio da cui guardarsi, bensì un modello da seguire.

Il principale “tradimento” al romanzo di Collodi sta proprio qui, nel rendere Pinocchio un motore di resistenza che nel corso della pellicola arriva a travolgere i personaggi attorno a lui. Fino ad ora la storia di formazione di Pinocchio aveva riguardato sempre e solo lui, indirizzato da tutti gli altri verso un percorso di crescita e di maturità nel rispetto delle regole: Pinocchio di Guillermo del Toro cambia questo paradigma e per la prima volta sono i comprimari a prendere esempio dalla disobbedienza del burattino.