Colline, alberelli, casolari e magia, ogni immagine ingiallita del Pinocchio di Matteo Garrone racchiude in sé la pittura dei Macchiaioli, le parole di Carlo Collodi e la visione di un autore su un personaggio mitologico per il patrimonio culturale italiano. Così da subito si viene catapultati nel mondo della favola, un po’ come succede quando si guarda Il racconto dei racconti.

La storia di Pinocchio, il burattino di legno poco coscienzioso che cigola e scricchiola continuamente, la conosciamo bene, ma questo film risulta essere l’adattamento più fedele rispetto all’opera di Collodi, senza però dimenticare gli altri rifacimenti cinematografici e televisivi che ingloba e trasforma in un incanto poetico per gli occhi. L’Omino di burro, il giudice-gorilla, il Corvo e la Civetta, Medoro e i più noti come la Fata turchina, il grillo-parlante e Lucignolo si animano e come i burattini di Mangiafuoco si mettono in scena usando le parole del Collodi-Garrone che li dirige mantenendo intatta l’anima di ciascuno e ne cura le fattezze in modo tale che rimangano ben impresse, per il futuro, le loro immagini nelle menti dei suoi spettatori. Lucignolo è il bambino pestifero e tentatore per eccellenza, grazie allo sguardo furbo, ma tenero di Alessio Di Domenicantonio, e il grillo-parlante è sempre la saggia ombra-fantasma che attanaglia quel burattino “testa di legno”. La desolazione del piccolo Marcello di Dogman torna e si incarna nel Geppetto interpretato da Roberto Benigni che, pur facendo l’occhiolino a quello di Nino Manfredi, porta con sé il suo retaggio clownesco: così non ci si può stupire quando egli, raccontando la sua miseria, riesce comunque a strappare un sorriso beffardo alle sue platee.

Matteo Garrone fa in modo che il suo e il nostro sguardo, come i conigli neri sulla bava della Lumaca, scivoli e scorra da un fotogramma all’altro dando vita ai frammenti della memoria delle persone che, nel leggere il libro di Collodi, vedevano già immagini tanto vicine a quelle acquerellate di questo film. I cieli de L’imbalsamatore sempre di Garrone tornano e circondano di nuvole i personaggi più ambigui di Pinocchio. Così la sequenza in cui arrivano il Gatto e la Volpe che, inquadrati dal basso verso l’alto, abbindolano il piccolo burattino fa sognare allo spettatore, insieme a Pinocchio, quel campo dei miracoli e quella grotta che cela l’albero pieno di monete d’oro. I musi di Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, entrambi una scommessa vinta, ed i nodi, le incrinature e le venature del legno del burattino-bambino (il bravo Federico Ielapi) e il verde oliva del grillo-parlante, mostrano come il trucco sia un’arte dalla bellezza sconcertante e in continua evoluzione. Ad incorniciare questa fiaba ci sono poi i paesaggi, dalle immense distese dei campi, incolti e arati, alle masserie fino alla villa rinascimentale di Dino De Laurentiis e Silvana Mangano. Scenografie che sfidano gli amanti dell’arte e i cinefili a trovare il quadro e il film di riferimento in un gioco che ricorda, come un lontano parente, quello di Stanley Kubrick in Barry Lyndon.