La storia produttiva di Pixote è quella di ogni opera che aspiri all’etichetta – oggi forse un po’ abusata, ma pregna di significato – di cinema del reale: per il suo terzo lungometraggio, l’argentino Héctor Babenco è deciso a scandagliare i bassifondi delle metropoli brasiliane per raccontare dei meninos de rua che popolano i riformatori e mettono a ferro e fuoco le strade di São Paulo. Vuole realizzare un documentario, così trascorre mesi e mesi a intervistare dodicenni già tristemente avvezzi alle violenze più inaudite e trova tra le tante facce segnate il suo piccolo protagonista.

Come da copione, il governo nega i permessi per girare nelle carceri minorili, e Babenco ripiega sul film di finzione. La sua vena etnografica si riversa così in un racconto stilisticamente piano, lucido e crudissimo: la storia di Pixote, che ha solo dieci anni, è costellata di brutalità tanto disturbanti da ingaggiare lo spettatore un feroce gioco al massacro, in cui si è costantemente sfidati a non distogliere lo sguardo di fronte all’ennesimo stupro, pestaggio o aborto clandestino. Perché Pixote è certamente la testimonianza fedele di un preciso contesto socio-culturale, ma è anche uno straordinario film horror, e come tutti gli horror che si rispetti esordisce come opera corale per poi restringere sadicamente il campo su un unico sopravvissuto, un bambino costretto suo malgrado a un coming of age atroce e prematuro.

Si è detto molto della derivazione neorealistica dello sguardo di Babenco, la cui purezza del racconto sarebbe figlia di una stagione del cinema italiano in cui la macchina da presa si pensava tanto aderente al suo oggetto da scomparire. Ma più ancora che dei nostrani sciuscià, Pixote ci sembra il fratellino minore dei buñueliani Figli della violenza, o dell’Antoine Doinel quattordicenne de I quattrocento colpi: solo in un riformatorio ben più duro, con una prostituta a mo’ di madre e senza un mare aperto verso cui correre in cerca di catarsi. È tuttavia a questa forma di lirismo che si abbandona Babenco in pochi, misurati slanci emotivi, in cui il susseguirsi martellante degli eventi cede il passo ai primissimi piani. Ma sono solo pochi istanti, prima che la violenza della favela torni alla carica. Così accade nel finale – spietato e potentissimo –, e così anche nella vita reale: pochi mesi dopo la fine delle riprese Fernando Ramos Da Silva, che illumina il racconto con un’interpretazione protagonista maiuscola, torna alla criminalità, e viene freddato a 19 anni in uno scontro con la polizia brasiliana.