Da luogo intimo e confortevole, scudo nei confronti dei pericoli del mondo esterno, a claustrofobico scrigno costrittivo e amplificatore di reconditi disagi. Le molteplici forme assumibili dall’ambiente domestico riflettono gli stati emotivi degli individui che in esso risiedono. Aspetto il cui potenziale suggestivo in campo cinematografico era ben noto già a pionieri dell’orrore come Robert Wiene o Paul Leni, che sull’esasperazione dei tratti scenografici fondavano il senso di angoscia dei loro incubi espressionisti. Come un labirinto di specchi deformanti, le mura di casa possono rendersi agenti distorsivi della percezione umana, subendone il processo di antropizzazione e restituendo un’esperienza che supera la realtà fenomenica per farsi indagine di un perturbante substrato psicologico. Una delle più lucide traslazioni di questo fenomeno in racconto audiovisivo giunge dalla filmografia di Roman Polanski ed in particolare da quel trittico irrinunciabile che, a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, ha saputo scandagliare il terrore annidato nelle stanze di appartamenti immersi in contesti urbani. Tre film spalmati su oltre un decennio, e alternati a considerevoli divagazioni, cui un’analisi a posteriori ha saputo riconoscere un tratto tematico comune, racchiudendo le opere in questione in quella che oggi apostrofiamo come Trilogia dell’appartamento.

Opere accomunate dal medesimo utilizzo dell’ambiente domestico come porzione di mondo assimilabile ad “immaginario”, secondo l’accezione di Edgar Morin, ovvero come «il punto di coincidenza di immagine e immaginazione». E secondo Polanski l’immagine coincide con lo spazio confortevole del focolare, cui si sovrappone appunto l’immaginazione scaturita dalla soggettività dei personaggi e la relativa azione metamorfica. Processo che pare evidente soprattutto in Repulsion (1965), suo secondo lungometraggio, in cui una Catherine Deneuve in piena ascesa nel firmamento europeo si faceva corpo di un malessere incontenibile, che trovava negli angusti spazi di casa il luogo dell’inevitabile deflagrazione. Gérard Brach, che affiancherà il regista anche nel tassello conclusivo dell’ideale trilogia, accompagna Polański in fase di scrittura, coadiuvandolo nella stesura di un dramma surreale in cui la solitudine diviene innesco per una danza di intimi orrori. Prosciugata dai connotati più concilianti, l’abitazione della protagonista Carol diviene cassa di risonanza di paure mai dichiarate, sentimenti mai definiti verbalmente, ma suscitati e restituiti attraverso la carica sinestetica dell’immagine in movimento. I luoghi si animano per farsi artefici e stimolo di violenza, in un’apoteosi paranoica che attraverso lo sguardo dell’autore raggiunge quello stato inebriante su cui poggia la spettacolarità cinematografica.

Un tema analogo, benchè espresso tramite una differente struttura formale, rappresenta il cuore pulsante di Rosemary’s Baby (1968). Adattato dall’omonimo romanzo di Ira Levin, il film che avrebbe poi consentito l’ingresso di Polanski nell’olimpo hollywoodiano rinuncia ad un linguaggio di matrice avanguardista per orientarsi su una costruzione lineare, limpida ma ugualmente disturbante nella sua inesorabilità. Il sogno borghese di Rosemary Woodhouse (Mia Farrow), convinta di avere trovato un confortevole nido d’amore da condividere con il marito Guy (John Cassavetes), viene minato dalla presenza invadente ed invasiva dei coniugi Castvet. Dapprima elemento di disturbo nella vita coniugale, gli anziani vicini divengono latori di sciagurati avvenimenti, persecutori di un fine ultimo che passa attraverso la dannazione della protagonista. Il caloroso covo famigliare viene quindi presentato come un idilliaco microcosmo costantemente minacciato dagli influssi nefasti di un male dirimpettaio e opprimente, un esterno fin troppo interessato a superare lo zerbino all’ingresso senza pulirvisi le scarpe. È perciò la prossimità del pericolo a sgretolare il ricercato clima di distensione e pacatezza, fagocitando la facciata salvifica degli ambienti famigliari e rendendoli fragili linee di demarcazione fra il “sé” ed una minaccia multiforme che preme all’uscio. L’inquietudine non è in questo caso la proiezione di un’emotività instabile, ma il prodotto di una forza reale che attraverso i canali d’accesso alla vita quotidiana trova il modo di insinuarsi (letteralmente) all’interno della vulnerabile vittima.

Nel giro di pochi anni il regista franco-polacco concepisce, quindi, due aspetti differenti di disagio legato all’ambiente domestico, ma passerà quasi un decennio prima che entrambi vengano riscoperti e sintetizzati in quello che probabilmente resta il suo più grande apporto all’arte cinematografica. È il 1976 quando Polanski, reduce dall’acclamato Chinatown (1974) valsogli la seconda nomination all’Oscar, torna a concedere libero sfogo ai più inafferrabili timori umani con L’inquilino del terzo piano. E forse non è un caso che questa volta il corpo oggetto e sorgente di allucinate perversioni sia quello di Polanski stesso, che torna a plasmare la materia dell’orrore per la prima volta da quando questo aveva fatto tragicamente incursione nella sua vita la notte del 9 agosto 1969, in una villa a Cielo Drive. Con il ritorno ad un cinema di cupe atmosfere ecco che di nuovo un elegante alloggio parigino si fa teatro di perdizione per una mente fragile; una soggettività incapace di comprendere l’origine del proprio disturbo e che nella ricerca di una via di fuga finisce per abbracciare lo stato di follia da cui pretende di evadere. Gli aspetti di messa in scena e drammaturgia filmica convergono qui nella tessitura di un senso di perdizione.

Stonature ironiche e deliri irrisolvibili si contrappongono in un’alternanza che si sarebbe poi consolidata nell’estetica lynchiana, anticipata da questo film a pochi mesi dall’esordio folgorante di Eraserhead – La mente che cancella (1977). Il crinale che separa l’azione corrosiva di una realtà ostile da un’angoscia rigurgitata dal profondo dell’animo è estremamente labile in questa anticamera infernale in cui tutto accade in maniera implacabile, ostruendo qualsiasi spiraglio di ragione. Perché l’approdo finale della trilogia rivela che il terrore vero, sia esso interno o insopportabilmente vicino, è reso tale soprattutto dalla sua natura sfuggente e incomprensibile. Corrotto da questo turbinio di insane pulsioni, il luogo del quieto vivere si trasforma in un antro senza via di scampo. Nient’altro che un labile e inefficace involucro contro le cupe macchinazioni del mondo e al contempo angusta arena per un’inevitabile confronto con latenti paure.