Come vediamo all’inizio di Pasolini (2014), l’intenso e onirico biopic che Abel Ferrara ha dedicato ai giorni di vita conclusivi del sommo intellettuale, la sua ultima intervista fu rilasciata al giornalista francese Philippe Bouvard e contiene un passaggio essenziale per comprendere la sua intera poetica: “Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere. Chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista”. Tutta la vita e l’opera di Pasolini sono state consacrate infatti al gusto dello scandalo, alla provocazione, alla commistione fra sacro e profano, alla messa a nudo della borghesia e del Potere – quel Potere che, secondo l’altra recente biografia cinematografica, La macchinazione (2016) di David Grieco, ne decretò la morte.

Il primo Pasolini (parliamo sempre dal punto di vista cinematografico, anche se il suo pensiero artistico è un tutt’uno), quello di Accattone e Mamma Roma – ma anche del soggetto di Una vita violenta – descrisse in modo quasi neorealista la vita di borgata, quella che lui conosceva così bene e che aveva animato i suoi scritti, la squallida esistenza delle periferie romane fatta di povertà, micro-criminalità e violenza.

Mentre affiancava la sua attività di regista a quella di documentarista (in un unicum che finiva spesso per sovrapporsi) e cercava di conciliare la sua laicità con un bisogno religioso attraverso film come Il Vangelo secondo Matteo e l’episodio La ricotta del collettivo Ro.Go.Pa.G., andava man mano definendosi nel suo cinema una critica sempre più aspra alla borghesia e alle sue contraddizioni: dal docu-film La rabbia all’apologo umoristico-surreale di Uccellacci e uccellini, dal dramma grottesco di Teorema fino a uno dei suoi film più scandalosi, anarchici e radicali, quel Porcile (1969) così intriso di perversione e nichilismo da fare in un certo senso fa da preambolo all’estremo testamento di Salò o le 120 giornate di Sodoma.

Con le parole di Roberto Chiesi del Centro Studi Pier Paolo Pasolini, si spiega la genesi particolare di quest’opera così scabrosa e controversa, e perciò tanto più essenziale per la comprensione del pensiero pasoliniano: nel 1968 Pasolini incontra un produttore indipendente, Gian Vittorio Baldi (noto come regista del lungometraggio Fuoco!), il quale gli dà carta bianca per un progetto che il Nostro vorrebbe mettere in scena, un film sperimentale nella narrazione e quasi completamente muto, da girare sull’Etna e ambientato in un’epoca arcaica, con protagonista un cannibale che viene poi catturato e condannato a morte dalle autorità.

La vicenda è però troppo breve per essere spalmata su un lungometraggio, così si pensa inizialmente di distribuirlo insieme a un mediometraggio di Luis Buñuel, Simon del desierto, che era ancora in attesa di una distribuzione: un’idea che viene in seguito accantonata in favore di un altro progetto, cioè quello di realizzare un unico film di Pasolini, il quale deve così dirigere un altro film breve da abbinare a quello che ha già in mente. A tale scopo, adatta per il grande schermo una sua precedente tragedia teatrale ambientata nell’epoca contemporanea, Porcile appunto, formando un unico film le cui due parti vengono continuamente alternate.

Due vicende che Pasolini – partendo dai suoi soggetti originali – traspone di persona in fase di sceneggiatura, dando vita a un film volutamente sgradevole, provocatorio e scomodo, che trae piacere nello scandalizzare. Da una parte, c’è la storia contemporanea di Julian (Jean-Pierre Léaud), il figlio di un ricco industriale tedesco, che vive con la famiglia in una faraonica villa in Germania. Il ragazzo conduce una vita apatica e priva di ideali, e rifiuta l’amore della spasimante Ida poiché affetto da zooerastia, per cui si accoppia di nascosto coi maiali dell’allevamento circostante. Suo padre, Herr Klotz (Alberto Lionello), è un ex nazista che riceve un giorno la visita di un vecchio camerata, Herdhitze (Ugo Tognazzi), il quale è andato in Italia a rifarsi il volto tramite un’operazione di chirurgia plastica, e lo ricatta poiché conosce la perversione del figlio.

Pur di non divulgare il segreto, Klotz accetta di mettersi in società con Herdhitze, e quando quest’ultimo riceve la notizia che Julian è stato divorato dai maiali, impone il silenzio. Dall’altra parte, c’è invece la storia ancestrale di questa indefinita società primitiva: un uomo (Pierre Clémenti) si aggira da solo su una montagna deserta, cibandosi di serpenti e insetti, fino a quando scopre il piacere di mangiare la carne umana. Per cui, unitosi ad altri cannibali, uccide e divora chiunque incontra sul proprio cammino, fino a quando viene catturato dai soldati e condannato a morte insieme ai suoi sodali, che vengono legati a dei pali e fatti sbranare dai cani.

In Porcile, Pasolini alterna la narrazione delle due storie attraverso il montaggio paratattico di Nino Baragli – cioè con le sequenze alternate e giustapposte – e ciò che ne deriva è un’opera composita, ma allo stesso tempo estremamente coerente e unitaria: un apologo sulla degenerazione dei nostri tempi, un tragico confronto tra le società antiche e quella presente, la messa a nudo in modo estremo del conflitto tra la società di oggi (i padri) e i suoi figli disobbedienti, che vengono da essa fatti sparire per dare vita a un nuovo ordine. Il film diventa una quintessenza dello stile e della narrazione pasoliniani, con quel gusto per il grottesco quasi surreale così ricorrente nella sua filmografia, e anticipatore dell’elemento estremo di Salò, seppure qua sia più che altro accennato e suggerito che non effettivamente mostrato, come invece sarà nel suo film-testamento.

Eppure l’elemento osceno è già presente qua in nuce in tutta la sua potenza, tanto nella zoorastia di Julian (mai vista né effettivamente raccontata, ma resa palese dai dialoghi) quanto nel cannibalismo dell’altro episodio, che a livello visivo concede qualcosa di più, dalle teste decapitate agli arti scarnificati, mentre il fuoco arde e le bocche degli antropofagi si muovono fameliche: due perversioni che, nella lettura sempre di Roberto Chiesi, possono essere viste come una metafora dell’omosessualità – un tema tanto caro a Pasolini per le ben note ragioni personali – cioè un vizio che non poteva essere accettato dalla società occidentale dell’epoca, e che per tale motivo viene “divorato”, inglobato, fatto sparire.

Ma, anche fuori dalla metafora omosessuale, la soppressione degli elementi più scomodi e disobbedienti è l’autentico fil rouge di Porcile, che racconta – con quel gusto per lo scabroso e lo scandalo che dicevamo all’inizio – la repressione messa in atto dalla società tanto di ieri quanto (soprattutto) di oggi. Centrale nell’episodio contemporaneo è l’irriducibile incomprensione (anzi, possiamo dire conflitto) tra i padri e i figli disobbedienti – un tema che Pasolini aveva già trasposto per il cinema con il precedente Edipo re, la tragedia per eccellenza sull’eliminazione della figura paterna: o meglio, come spiega la lapide posta a mo’ di didascalia e recitata da una voce narrante, quei figli che non sono né obbedienti né disobbedienti.

E, in tal senso, Porcile è un film profondamente sessantottino – in particolare nella storia di Julian e suo padre, la più corposa e importante – per la messa in scena di una generazione di ragazzi perduti (spesso figli di piccoli e grandi borghesi) che non riescono a trovare una loro collocazione nella società, e non sono tanto forti da ribellarsi ma nemmeno tanto deboli da aderire al conformismo: per cui, o rientrano nei ranghi delle leggi societarie come il protagonista di Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, oppure sono destinati a sparire.

La storia del cannibale è chiaramente una metafora: a Pasolini non interessava descrivere una società distante nel tempo e nello spazio – tant’è vero che l’epoca e il luogo geografico sono indefiniti, forse medievali a giudicare dai costumi, ma poco importa – bensì mettere in scena il conflitto eterno e irriducibile fra la società e i suoi figli degeneri. I cannibali rappresentano quei figli disobbedienti che l’ordine costituito non può accettare, e che è perciò costretto a reprimere con la violenza affinché tutto rientri nei ranghi: una legge universale, valida tanto in epoche e società arcaiche quanto nel presente, un principio costitutivo della forma societaria che assurge a valore assoluto e incontrovertibile.

Fuor di metafora, la storia narrata è lo specchio di quello che accadeva negli anni tumultuosi in cui viveva Pasolini e in quelli successivi (che l’intellettuale aveva colto in anticipo sui tempi), con la repressione del dissenso da parte del Potere dello Stato – ed è curioso notare come anche i fratelli Taviani, sempre nel 1969, abbiano utilizzato l’espediente narrativo della società primitiva quale astrazione del presente, con Sotto il segno dello scorpione. La messa in scena dell’episodio di Porcile è cruda ed ermetica: interamente ambientato in una landa desolata e desertica (fu girato sull’Etna), piena di crateri fumanti che ne fanno quasi un girone infernale dantesco, è quasi interamente muto e privo di colonna sonora (escluse alcune note sporadiche e rapsodiche di Benedetto Ghiglia), con un personaggio (Pierre Clémenti, il bel tenebroso francese più volte presente nel cinema impegnato e sperimentale di quegli anni) che si muove cibandosi di ciò che trova, prima serpenti e insetti e poi gli esseri umani.

Dopo aver ucciso un soldato, scopre infatti la sua natura antropofaga in un percorso di perdizione senza ritorno, unendosi poi in branco ad altri cannibali (notiamo l’immancabile Franco Citti, attore-feticcio di Pasolini), prima di essere catturato e giustiziato. Il paesaggio – forse una rappresentazione del Nulla, coerentemente col pensiero nichilista del Nostro – ben fotografato da Giuseppe Ruzzolini, è una landa desertica simile a quella che avevamo già visto nel finale grottesco e surreale di Teorema, quando Massimo Girotti corre nudo e urlante in mezzo a un deserto, creando così un ideale trait-d-union fra due film fondamentali per comprendere il pensiero anti-borghese e anti-capitalista di Pasolini.

Una critica aspra e feroce alla borghesia che deflagra in tutta la sua potenza nell’altro episodio, quando a essere messo in scena (sia pure con una deformazione parossistica) è direttamente il tempo presente. Siamo in Germania – ma la vicenda potrebbe essere idealmente anche ambientata in Italia – nel regno di un ricco industriale, presumibilmente un ex nazista, esponente della borghesia più grassa e conservatrice. Notevole è la scelta degli attori, utilizzati a contrasto, per cui sia il padre di Julian sia il medico delle SS che si è cambiato i connotati sono interpretati da due volti solitamente simpatici e rassicuranti, spesso protagonisti di commedie, rispettivamente Alberto Lionello e Ugo Tognazzi.

La messa in scena è talvolta ai limiti del caricaturale – Herr Klotz, cioè Lionello, è un paralitico raffigurato con i baffetti alla Hitler – ma ciò non deve essere visto come una contraddizione verso il reale, bensì come una deformazione della realtà in senso parossistico e grottesco quale è lo stile del Pasolini più maturo, in opposizione al simil-neorealismo dei suoi primi film. Perché Porcile è la quintessenza del cinema (e del pensiero) pasoliniano, così aspro e feroce, radicale e anarchico da volere nel cast anche uno dei registi più liberi e irriverenti del cinema italiano: Marco Ferreri, a sua volta autore di un’arte grottesca e surrealista (pensiamo a La grande abbuffata), qua nel ruolo di Hans Guenther, un altro ex nazista che presenta Herdhitze (Tognazzi) all’industriale, scatenando quel turbine di vicende che dicevamo. Anche la scelta dell’attore che interpreta Julian è curiosa, poiché troviamo quel Jean-Pierre Léaud divenuto famoso fin da bambino (e poi da ragazzo) nel ruolo che François Truffaut gli ha ritagliato per il personaggio immaginario di Antoine Doinel.

Dimentichiamo quei ruoli simpatici o commoventi, perché qua il ragazzo a cui dà il volto Léaud è il rampollo irrancidito e perverso di questa disfunzionale famiglia alto-borghese e patriarcale (la madre, interpretata da Margarita Lozano, è una figura secondaria): un uomo senza qualità né ideali come quello narrato dallo scrittore Robert Musil, un giovane che vive i turbamenti sentimentali della sua età (ma a nulla valgono le avances di Ida, la Anna Wiazemsky già vista in Teorema), nonché l’inconciliabilità fra l’appartenenza alla classe borghese e l’incapacità di ribellarsi – per cui, come dicevamo, Julian vive la curiosa condizione di essere un figlio né disobbediente né obbediente.

Potrebbe essere un giovane come tanti, se non fosse che è affetto da zoorastia, una perversione che lo porta ad accoppiarsi coi maiali, patologia che è a sua volta una parabola della diversità psichica e ideologica che i giovani hanno verso i genitori e più in generale verso la società. Porcile è un film sporco e squallido (nell’accezione più positiva dei termini), come quei suini che vediamo in tutta la loro sporcizia e repellenza nella scena iniziale, inquadrati sulle malinconiche e ricorrenti note a contrasto sempre di Benedetto Ghiglia, e poi nella sequenza conclusiva, prima che una delegazione di contadini guidata da Maracchione (Ninetto Davoli, un altro attore-feticcio di Pasolini) annunci a Herdhtize che le bestie hanno completamente divorato il ragazzo.

Perché il tema di fondo è ancora quello dell’altro episodio, tanto diverso nella forma quanto speculare nella sostanza: i figli (i giovani ribelli) che non riescono a conformarsi alla vita borghese vengono da essa “divorati”, inglobati, fatti sparire nel nulla senza fare troppo rumore, come fa capire l’inquadratura finale di Tognazzi indicante il silenzio – immagine che conclude il film ex abrupto, in modo repentino, prima della parola “fine”, senza ovviamente nessuna conclusione risolutoria o consolante. C’è poi tutto un contesto per niente secondario riguardante le figure del genitore e dei due ex camerati che vengono a fargli visita: essi sono i rappresentanti della vecchia classe dirigente nazista che si è riciclata e occupa ora un ruolo di spicco nell’alta borghesia, dunque nella nuova classe che detiene il Potere.

Particolarmente significativa è la figura di Tognazzi, qua svincolato da ogni maschera comica, un ex medico assassino delle SS (ispirato a una figura realmente esistita) che è andato in Italia a farsi la plastica facciale: vale a dire, una rappresentazione neanche tanto simulata dei vecchi nazifascisti che hanno cambiato il volto, cercando di rifarsi una verginità, fino a impestare nuovamente e in segreto la società contemporanea – il pensiero anti-borghese, anti-capitalista e anti-fascista di Pasolini coincide con estrema coerenza.

I sordidi amplessi di Julian non sono mai mostrati né narrati, ma fatti capire dai dialoghi fra Lionello e Tognazzi, che ricatta Herr Klotz per entrare in società con lui, fino a diventare il vero capo delle sue industrie. Pasolini, per dare uno stacco anche visivo, cambia il direttore della fotografia, che da quella più aspra e selvaggia di Ruzzolini diventa quella più pulita e apollinea di Armando Nannuzzi e Tonino Delli Colli, i quali ritraggono l’interno e l’esterno di questa gigantesca e lussuosa villa dove si svolge quasi tutta la storia. Una vicenda che diventa sede di dialoghi degni del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett o dell’anti-teatro di Carmelo Bene (un autore evidentemente amato da Pasolini, che lo aveva voluto nel suo precedente Edipo re), in particolare nei dialoghi criptici di Julian con Ida o nelle crudeli narrazioni tra i vecchi nazisti, dove l’orrore della Storia viene narrato in modo tanto crudele quanto grottesco.

A questo punto, la strada verso Salò è tracciata, e a Pasolini non rimane che guardare definitivamente nell’abisso per donarci il suo testamento artistico.