Più dell’indiscutibile interesse antropologico, più della fascinazione evocata dall’incanto naturale, El abrazo de la serpiente vive del suo intimo, complesso, emozionante legame con il tempo. La sua struttura intreccia due piani temporali che, seppur compresi nell’arco di un trentennio, sembrano accogliere una dimensione ben più ampia, che affonda le sue radici nel racconto di una comunità, l’Amazzonia, ancestrale, lontana, estranea al mondo, in cui lo scorrere degli anni è determinato quasi esclusivamente dal decadimento fisico, dalla scomparsa dei propri simili, dalla difficoltà di rinvenire negli anfratti della memoria l’antica consuetudine alla vita.
Lo sciamano Karamakate è il protagonista di una storia che è soprattutto la storia del suo popolo, essendo egli l’ultimo a conservarne quel che resta del ricordo. A farlo riaffiorare, a metà dello scorso secolo, è uno scienziato americano alla ricerca della yacruna, un’introvabile pianta terapeutica in grado di rieducare gli individui al sogno, quindi di restituire all’uomo la completezza non dovuta ai chullachaqui (gli uomini vuoti). Lo studioso intende seguire le tracce di un suo omologo tedesco che, una trentina d’anni prima, aveva inserito la pianta in un suo libro, risultato di una spedizione in cui fu accompagnato proprio da Karamakate. Ispirato ai viaggi di Teo Koch-Grunberg e Richard Evan Schultes, El abrazo de la serpiente è a sua volta un allucinato e tortuoso diario di un viaggio. Grande potenza estetica, un’evidente tensione visionaria, una cura formale impeccabile e finanche estetizzante, certo.
Tuttavia, evitando di lasciarsi suggestionare completamente componente esotica che è uno dei rischi conclamati di film – siano essi di matrice narrativa o d’impianto documentaristico – ambientati in questi luoghi inevitabilmente visti come “altri”, Ciro Guerra sceglie l’approccio delle corrispondenze temporali, come se la storia fosse davvero un ciclico riproporsi di stimoli verso ciò che deve essere conquistato in quanto sconosciuto, e della riflessione attorno a non scontati contrasti tra la purezza primordiale autoctona e la brama di potere colonizzante. Il limpido, tenebroso, antico bianco e nero sembra essere la prospettiva dell’occidentale incapace di stanare il segreto sotteso all’incanto panico dell’Amazzonia, inaccessibile a chi la intende territorio da espugnare e, d’altra parte, protetta prima dalla forza e poi dalla smemoratezza di Karamakate. In questo senso, il film è davvero il racconto di una disperata avventura che, sfidando la paura e la ragione, si butta alla conquista di una cultura ignota alla cultura del bianco.
Il tema di fondo finisce per essere la rimozione: la reazione dello scienziato tedesco di fronte al furto della bussola non mostra solo la privazione fisica di un legame con la terra tedesca natia, ma anche l’inizio della scoperta, da parte dei nativi, di una conoscenza lontana dalla loro e, probabilmente, impenetrabile. Il bianco capisce, così, che, sebbene sia impossibile impedire loro di imparare ad utilizzare oggetti estranei alla loro cultura, la nuova comprensione avrebbe soppiantato, per esempio, l’antico metodo ad orientarsi con il vento e le stelle. Simbolicamente, quando l’americano trova l’anziano superstite, la sua memoria appare disabituata alle cose che apparivano spontanee nella comunità di appena un trentennio prima; e contestualmente è diffidente nei confronti di ciò che non appartiene alla tradizione. Una sorta di resistenza naturale. Perciò il film è dedicato ai popoli di cui non sentiremo più i canti.