Pochi registi hanno saputo essere maestri in egual misura del dramma e della commedia come il sublime Billy Wilder, un autore cardine della Hollywood classica che ancora oggi continua a dare lezioni di cinema tanto agli addetti ai lavori quanto ai cinefili. Wilder, con la regia magistrale e apollinea che lo contraddistingue, ha posto le basi tanto del noir, con film quali La fiamma del peccato e Viale del tramonto, quanto della sophisticated comedy, con titoli come A qualcuno piace caldo e Quando la moglie è in vacanza. Numeri alla mano, nella sua vasta filmografia si contano più commedie che drammi (senza escludere altri generi come il war-movie), eppure il Nostro ha saputo alternarli con eguale maestria: e non solo li ha alternati, ma li ha anche fatti convivere mirabilmente all’interno degli stessi film.
Basti citare A qualcuno piace caldo, una delle più famose e importanti commedie hollywoodiane, dove tutto ha origine da un sanguinario fatto storico come il massacro di San Valentino, oppure Vita privata di Sherlock Holmes, una gustosissima convivenza di giallo e commedia. Forse meno citato rispetto ai precedenti, ma egualmente riuscito e importante nella filmografia di Wilder, è Prima pagina (The Front Page, 1974): un film che oggi definiremmo un dramedy, cioè una forma innovativa di commedia, amara e ricca di spunti di riflessione, una satira sulla stampa e sulla politica, un’armonica fusione di commedia e dramma, decisamente più virata verso la commedia, ma che sa essere causticamente uno specchio di alcune spinose questioni della società americana di ieri e di oggi.
Prima pagina è la terzultima opera di Wilder, prima di Fedora e Buddy Buddy, un’epoca in cui il regista ha già abbracciato definitivamente il colore, mantenendo una cura certosina nella fotografia dal gusto vintage: un film significativo innanzitutto nella misura in cui testimonia la caparbietà del regista nel non farsi influenzare dalle correnti della New Hollywood, sempre più dominanti nel cinema americano degli anni Settanta, per proseguire con successo una riproposizione – anche se rinnovata – dei modelli classici.
Il soggetto del film è tratto dall’omonima opera teatrale (1928) di Ben Hecht e Charles MacArthur, una pièce da cui erano già state ricavate due trasposizioni cinematografiche, The Front Page (1931) di Lewis Milestone e La signora del venerdì (1940) di Howard Hawks, quest’ultimo un altro regista della Hollywood classica che fu maestro in egual misura della commedia e del noir. Lo stesso Wilder scrisse la sceneggiatura, a partire dal testo teatrale, insieme a I. A. L. Diamond, mantenendo la medesima ambientazione temporale dell’opera originale.
L’azione si svolge a Chicago nel 1929, mentre i giornalisti dei più importanti quotidiani nazionali soggiornano nella sala stampa del tribunale in attesa dell’esecuzione di Earl Williams, condannato all’impiccagione per l’omicidio di un poliziotto. Nel frattempo, all’interno della sede del Chicago Examiner, è in corso una lite fra Hildy Johnson (Jack Lemmon) e il suo capo Walter Burns (Walter Matthau): il giornalista vorrebbe lasciare il lavoro per sposarsi con Peggy e trasferirsi a Philadelphia, ma il suo capo non vuole lasciarlo andare e ricorre ai sotterfugi più meschini per mandare a monte i suoi progetti.
A causa della sbadataggine dello sceriffo e dello psicologo che lo sta visitando, il prigioniero riesce a fuggire dalla cella e si rifugia proprio nella sala stampa, lasciata momentaneamente vuota, mentre la polizia si affanna a cercarlo in tutta la città. Hildy, salito a prendere le fedi un attimo prima della partenza, rimane bloccato nell’ufficio con il condannato a morte: fiutando un memorabile scoop, lo nasconde all’interno di una scrivania e convoca il suo direttore. Una volta scoperti, i due giornalisti vengono arrestati, ma riescono per puro caso a dimostrare l’innocenza di Williams e la macchinazione ordita dal sindaco e dallo sceriffo.
Prima pagina è un film che risente molto dell’impostazione teatrale del testo da cui è tratto, essendo ambientato quasi interamente in un numero ridotto di interni e in un arco temporale abbastanza ristretto: ma, lungi dall’essere un difetto, la teatralità esibita nell’ennesimo capolavoro di Wilder sa farsi virtù, grazie a una regia baciata dagli astri e da un duo di fenomenali mattatori, una coppia affiatata e ricorrente nelle commedie di Wilder e non solo. Jack Lemmon e Walter Matthau, due mostri sacri di Hollywood, due attori giganteschi di cui oggi si è perso lo stampo (e che nella versione italiana hanno rispettivamente le voci inconfondibili di Giuseppe Rinaldi e Ferruccio Amendola), sono a loro volta versatili tanto nella commedia (soprattutto) quanto nel dramma: per cui il regista ha buon gioco nel mescolare i generi in una continua alternanza di gag comiche e riflessioni al vetriolo sull’America, che confluiscono l’una nell’altra senza soluzione di continuità.
Trasporre un testo teatrale è sempre un’impresa ardua e piena di trappole, esponendosi al rischio di una eccessiva legnosità e verbosità. Parole che però non compaiono nel vocabolario registico di Billy Wilder, il quale grazie al suo proverbiale “tocco” artistico (così come c’è il Lubitsch Touch, dovrebbe esistere nel dizionario cinematografico anche un Wilder Touch), oltre ai due istrioni in scena e a numerosi ottimi caratteristi, dà vita a un film estremamente brioso, divertente e irriverente, pur nella voluta ristrettezza delle unità di tempo e di luogo.
Wilder, as usual, ha il massimo controllo di tutto l’impianto cinematografico, dallo script alla messa in scena e alla direzione degli attori (senza dimenticare una certosina ricostruzione d’epoca, negli interni e nei costumi), per cui può permettersi il lusso di creare un’opera artistica squisitamente personale e diretta con un’attenzione maniacale tanto alla forma quanto al contenuto. Introdotto dalle musiche frizzanti che accompagnano i titoli di testa, sullo sfondo di scene con vecchie rotative di stampa a sottolineare il carattere vintage dell’ambientazione, Prima pagina alterna inizialmente le vicende della fumosa sala stampa del tribunale con quelle della sede del Chicago Examiner, focalizzandosi soprattutto sui rapporti fra Lemmon e Matthau, eterni nemici-amici.
Le sequenze nel tribunale, con inquadrature sul patibolo in fase di allestimento, sono più che altro propedeutiche alla presentazione della vicenda, grazie ai dialoghi fra i giornalisti presenti e poi all’entrata in scena dello sceriffo – un grandissimo, goffo e inconfondibile Vincent Gardenia – che ha la mania di vedere “bolscevichi” ovunque (e su questo bisognerà tornare). Ma sono Hildy e Burns i veri protagonisti, tanto che la regia indugia in spassosissimi dialoghi e duetti fra i due eleganti protagonisti, dai confronti in agrodolce nella sede del quotidiano ad alcune memorabili gag: pensiamo alla scena in cui Matthau si finge sceriffo di fronte alla futura moglie di Lemmon (una giovane Susan Sarandon), per accusarlo di essere un maniaco sessuale e farli separare, ma viene maldestramente scoperto. Un antipasto a scene che saranno ricorrenti nel film, con Matthau che cerca ripetutamente di incastrare Lemmon in qualche modo pur di non farlo partire, fino alla beffarda conclusione sul treno, con la coppia che sta partendo felice e il direttore del giornale che si concede un ultimo gesto di perfidia.
Eppure, Prima pagina non è incentrato solo sui due protagonisti, ma riesce ad essere un film corale, dove le gag e gli spunti di riflessione coinvolgono numerosi personaggi, dallo sceriffo all’imbranato prigioniero (Austin Pendleton, un attore che nella sua goffaggine ricorda la recitazione del primo Woody Allen), dal sindaco e allo psicologo fino ai numerosi giornalisti presenti (a cui danno volto ottimi caratteristi), con un’attenzione particolare all’anziano ed effeminato redattore e al giovane e inesperto giornalista, che nei momenti di tensione se la fa sotto (letteralmente) dalla paura. Lo zenit del divertissement, che dà luogo alla seconda e più consistente parte del film, è raggiunto con l’irruzione di Williams – il quale è riuscito a disarmare lo sceriffo in un’altra scena esilarante – nella sala stampa, poi rinchiuso da Lemmon all’interno di una scrivania, con tutti gli equivoci che ne conseguono, insieme a Matthau e alla folta schiera di comprimari.
Con Prima pagina, Wilder crea un nuovo tipo di commedia destinata a fare scuola: non più la sophisticated comedy di A qualcuno piace caldo, Sabrina e Arianna, ma una commedia che si fa satira socio-politica. Eppure Wilder si concede ancora armoniosamente momenti di squisita commedia sofisticata, senza che tali sequenze risultino staccate dal resto: pensiamo ai romantici confronti fra Hildy e la sua futura sposa, oppure alla presenza della fidanzata dal prigioniero, la prostituta Molly (Carol Burnett), che a sua volta dà vita a scene tragicomiche come la caduta dalla finestra. Ma addirittura quel gigione cinefilo di Wilder si concede citazioni dalla slapstick comedy, nelle divertentissime sequenze velocizzate dove le auto della polizia inseguono ovunque per la città il fuggitivo, senza sapere che si trova sotto il loro naso.
Solo un maestro come Wilder poteva riuscire a far convivere divertimento e drammatiche riflessioni come accade in Prima pagina. Perché, dietro ai frizzanti dialoghi e agli impareggiabili mattatori Lemmon e Matthau, c’è tutto un sottotesto non banale di critica alla società americana di ieri e di oggi, un caustico ritratto che Wilder ci trasmette con forza fra una risata e l’altra. Si parlava in precedenza dello sceriffo che vede bolscevichi (cioè russi, anarchici, comunisti) ovunque: questo accadeva realmente negli Stati Uniti del 1929 (l’epoca in cui fu scritto il testo teatrale di partenza e in cui è ambientata la vicenda), quando la ferita di Sacco e Vanzetti (citati esplicitamente a un certo punto) era ancora aperta. Si viveva in un momento in cui le autorità vedevano ovunque il pericolo anarchico, e non è difficile identificare l’imbranato prigioniero – ritenuto un assassino, ma verosimilmente un capro espiatorio, vista la sua innocua sbadataggine – con i tanti innocenti accusati di vari reati solo perché appartenenti ai circoli anarchici (in primis Sacco e Vanzetti, per l’appunto).
E infatti, come i due protagonisti riescono infine a dimostrare, l’esecuzione dello sventurato Earl Williams, poi sventata, era soltanto una mossa politica delle autorità per ottenere più consenso presso gli elettori. Una caccia alle streghe che, col senno di poi, sarebbe proseguita anche negli anni del maccartismo, ai quali presumibilmente Wilder guarda nel dirigere il suo film, e che hanno lasciato ferite indelebili nella Storia americana. Ma Prima pagina è anche una feroce critica al giornalismo d’assalto, di ieri e di oggi: la ricerca continua dello scoop da parte di Hildy e Burns, le notizie distorte in nome dell’audience, i cronisti che attendono frenetici notizie sull’esecuzione – il tutto trasposto da Wilder con il gusto per l’ironia e il parossismo – formano un ritratto amarissimo di una società perennemente in guerra con sé stessa. Col risultato di un film eccezionale dove ci si diverte e si ride, sì, ma a denti molto stretti.