Sempre più il cinema italiano contemporaneo utilizza toni grotteschi, fantasy o da favola, solitamente associati ai racconti per l’infanzia, per investigare fenomeni collettivi complessi, reiventando le convenzioni del film di impegno e indagine sociale e riconnettendolo alle radici popolari. Se Piazza e Grassadonia hanno utilizzato l’innocenza della fiaba e la speranza nell’intervento del Soprannaturale per raccontare la brutalità della Mafia in Sicilian Ghost Story (2017), con Princess (2022) Roberto De Paolis porta il racconto della Bella Addormentata nel bosco della Ostia contemporanea per narrare le vite e le aspirazioni delle prostitute nigeriane che lì si vendono per pagare il debito accumulato per arrivare in Italia.

Princess è una di queste donne, piena di vitalità ma, al tempo stesso, imprigionata da uno sfruttamento che l’ha abituata a monetizzare tutto, anche le preghiere a Dio e gli stessi sentimenti, e a non ammettere, nemmeno con sé stessa, il dolore che prova ogni giorno. Il dolore, racconta ad una delle sue amiche, lo sente un’altra al posto suo per un incantesimo fatto prima di lasciare la Nigeria. Quando Corrado, un cliente insolito e con più attenzioni e rispetto degli altri, inizia a chiederle altro che non veloci incontri di sesso, la possibilità di una vita diversa sembra concretamente aprirsi per Princess.

Dopo Cuori puri (2017), De Paolis torna sulle dinamiche di una coppia di opposte solitudini e su luoghi “di confine”, e collocati nel margine della società italiana. Mentre nel primo film questi luoghi erano quelli tipici della postmodernità liquida ostili ad ogni possibilità di radicamento (un centro commerciale, un campo Rom), in Princess, fin dalla prima sequenza, dopo titoli di testa scritti con un carattere gotico evocativi di una dimensione fiabesca, è un luogo naturale, il bosco, ad essere il centro attorno al quale ruota tutta la vicenda.

Chiaramente, una tale ambientazione, con le sfumature di pericolo, opportunità, rifugio, fuga, avventura che la regia e la sceneggiatura di De Paolis le conferiscono di volta in volta, ci riconduce, ancora una volta, all’universo delle favole. Il bosco è un luogo franco e di passaggio, dove il potere della polizia, che arriva a cavallo e all’improvviso, non può penetrare nel fitto della vegetazione. È un luogo altro dallo spazio urbano, dove si prostituiscono le bianche, e che, pur essendo confinante, non permette l’accesso alle ragazze come Princess, se non per brevi gite in occasioni speciali. Sono i clienti maschi bianchi a poter muoversi liberamente dalla città al bosco e viceversa.

Princess è, quindi, un film di contrasti e di polarità, nei luoghi, negli avvenimenti (le due feste di compleanno che incorniciano la narrazione) come nei colori: non solo il bianco/nero della pelle, ma anche quelli fluorescenti delle parrucche e dei vestiti delle nigeriane e quelli grigi della città. Il film è comunque attento a non costruirsi tutto sul contrasto italiano/nigeriane: ci sono differenze di classe ben evidenziate tra i clienti italiani e ci sono contrasti all’interno dello stesso gruppo delle donne che litigano non solo per i clienti ma anche per i rapporti da tenere con le famiglie di origine.

Proprio per il modo lucido in cui il film mette in luce questi contrasti che si traducono in squilibri di potere e di possibilità, è bene ricordarsi, come fanno i titoli di coda, che Princess non è una favola, ma un’opera costruita e scritta da De Paolis con il contributo fondamentale delle testimonianze delle ragazze vittime di tratta. Questa collaborazione evita paternalismi sempre insidiosi quando si affrontano determinati argomenti e, grazie anche alla recitazione dei due protagonisti, Gloria Kevin e Lino Musella, comunica un senso di immediatezza e di urgenza fino ad avvolgerci nell’efficace sequenza finale.