A colpire da subito è come tutti parlino sottovoce. Persino la musica è suonata piano, quella di Elvis Presley, benché quasi assente, e quella dell’efficacissima colonna sonora, che alterna brani d’epoca -il film comincia nel 1959- a pezzi moderni. Nel caffè alla Grease di una base militare USA a Wiesbaden, in piena Guerra fredda, una ragazzina dai capelli raccolti in una coda alta, protetta da una maglia di lana rosa, viene invitata a casa del re del rock da un compagno di servizio militare di Elvis Presley e risponde sorridendo: “devo chiederlo ai miei”.

Con il tono distaccato e inafferrabile che da sempre accompagna le storie delle sue giovani protagoniste, Sofia Coppola incornicia in un perimetro ovattato, fatto di moquette, frullati e tende, la vita sentimentale di una vergine alle prese con le montagne russe del primo amore. Lascia che a scandire la prima parte di Priscilla si susseguano gli incontri fra la quattordicenne esule in Europa e il divo, col risultato di farli contare anche a noi sulle dita della mano come questa adolescente -ogni adolescente- chiesta in appuntamento, perché segnino indelebili la memoria di lei, la facciano sospirare nell’attesa del successivo e la conducano infine alla magione di Graceland, di nuovo straniera ma come Alice a Oz, e donna in divenire.

Qui, libera dallo sguardo del padre, è soggetta a quelli degli uomini che ne prendono il posto: non solo Presley, ma il clan di accoliti che lo replicano in stile e mimica, giudicano a distanza fisica e di genere la resa di ogni vestito indossato, decidono per lei, che si scopre via via destinata a “stare lì a tenere caldo il focolare”, cosa mettere e come truccarsi. Il rapporto tossico, con la sua immancabile ambivalenza, si fa di divertimenti notturni al luna park, fra autoscontro e zucchero filato, e droghe per rimanere sveglia l’indomani sui banchi di scuola, nell’anno che precede il diploma; corridoi e stanze in cui si aggira sola; una camera da letto in cui il sesso le è a lungo negato, in imprevisto contrasto ai decisi “vai in camera” con cui la accoglie Elvis, e rimpiazzato da caste sessioni di foto in pigiama e viaggi psichedelici.

Non c’è uomo che non voglia al contempo mantenerla bambina e imporle la giusta evoluzione verso la maturità: modi per controllarla, ai quali, in modalità sconosciute alla sua storia e ai suoi modelli, oltre che a sé stessa, scopre di non potere che opporsi come individuo prima ancora che come moglie. Alla conquista, mai tanto sinonimo di conoscenza, di sé e di un’autonomia oculatamente sottratta.

Se favola fu, rimase non realizzata. Ma tra i quattordici e i trent’anni Priscilla Presley smise di camminare sulle uova di un rapporto ferocemente impari, passò dal convinto “ha bisogno di me” al consapevole “voglio una vita mia!”, e divenne chi era davvero. Un dramma interiore che per Sofia Coppola non necessitava di volumi alti, lei sempre leggera e imprendibile, a dispetto del contesto musicale fragoroso per eccellenza in cui ebbe luogo, del quale in Priscilla, non a caso, non si sente alcuna eco.