Dentro all’enorme frullatore colorato del nuovo film di Sion Sono finisce di tutto, senza discrimine tra elementi pop e trash e più profonde riflessioni sulla società, sulla cultura visuale e sulla rappresentazione finzionale, a riconferma di uno sguardo indagatore che continua la sua ricerca all’interno di questo incredibile mix. Questi elementi hanno già caratterizzato la produzione più recente del prolifico regista giapponese, e la giustapposizione di tutti questi stimoli diventa il vero vettore per l’attenzione dello spettatore, in questo action movie che si presenta al pubblico con la faccia insanguinata di Nicolas Cage, ma in cui l’azione davvero poca, se non addirittura marginale.

L’ultimo lavoro del regista giapponese ormai icona di culto, amato e seguito in Italia da una nutrita schiera di fan appassionati che non sarebbe mai esistita senza internet, realizza negli Stati Uniti una produzione atipica basata su una trama di spiazzante semplicità: un rapinatore (Cage), rinchiuso però per crimini che non ha commesso, viene rilasciato dal governatore della città a patto che riporti a casa la figlioccia dispersa nella ghostland, un deserto da cui nessuno torna, dove vivono i reietti della società. Affinché il protagonista svolga il suo compito celermente viene vestito con una tuta ermetica armata di esplosivo in specifiche parti del corpo, cosicché una sua defezione o comportamento sconveniente venga tempestivamente e brutalmente fermato.

Questo incipit non originale potrebbe certo evolvere in numerosi sviluppi, ma la scelta è stata decisamente atipica e forse impopolare: le azioni che si susseguono sono ridicole, ridondanti, frammentate senza ritmo. Se pensiamo a un primo parallelo con l’ultimo film di Mad Max, ironicamente accusato di essere una lunga corsa nel deserto da A a B e nuovamente ad A, in questo film la corsa non è nemmeno lunga, e questo anche per via dello spazio, e del tempo, in cui il film è ambientato. A inizio film Cage entra in scena in una banca dall’aspetto artificiale, dove lo stile di abbigliamento ricorda gli anni ’60, ma subito dopo si ritrovar imprigionato sotto le tavole del portico dell’ufficio dello sceriffo della città, in un contesto da Far West, compreso l’abbigliamento dei personaggi.

In strada però gli abitanti vestono gli abiti tradizionali giapponesi e maschere animali, ma al tempo stesso usano smartphone e palloncini. Neon e insegne luminose coesistono con uno stile tradizionale orientale anche nella costruzione delle case, che però ci appaiono da subito solo uno sfondo, una fila di pareti di cartone inconsistente che al tempo stesso chiudono lo spazio intorno a noi come una prigione. E difatti quando Cage esce dalla città questa è racchiusa da una bassa murata e tutto intorno non c’è nulla, come se fosse appena uscito da uno studio cinematografico. Passiamo poi nella ghostland, ispirazione diretta di Mad Max con richiami cyber punk dove il protagonista arriva in un batter d’occhio, dove d’un tratto i colori si spengono e ci troviamo di fronte a tutta un’altra varietà di personaggi, non molto più grotteschi di quelli che vivono in città.

Il film esprime chiaramente due versioni specchiate di una società malata e al tempo stesso impotente in tutti gli aspetti, e butta alla rinfusa elementi di critica al capitalismo, denuncia dell’inquinamento, spettro del nucleare, sfruttamento minorile, e chissà quante altre cose che magari sono state colte da altri spettatori. Un minestrone di generi e riferimenti, un orologio che al posto dei minuti ha temi e personaggi che si susseguono con velocità disarmante, facendoci perdere la cognizione del tempo, nella nostra realtà di spettatori così come nella cadenza di atti e scene in sceneggiatura. Il desiderio di comprendere ed empatizzare con i personaggi che proviamo naturalmente, a un certo punto sparisce, non ci interessa più quale sia la storia di questi personaggi, ma solo la fascinazione della loro presenza metaforica e caricaturale.

Sion Sono, soprattutto nei film recenti, ha spinto sulla recitazione sopra le righe con film sempre più eccessivi che quasi sempre sfiorano maliziosamente il ridicolo, senza mai perdere di vista la propria chiara denuncia sociale. Non sorprende quindi la scelta di Nicolas Cage come protagonista, attore che, al di là delle proprie effettive capacità, negli ultimi anni è riuscito a lavorare molto proprio grazie alla sua sovra-recitazione, i suoi estremismi, gli occhi da pazzo che già l’avevano reso famoso agli inizi e sembrano essere ancora, nonostante gli anni che passano, la sua arma vincente in film come questo.

Alla fine, questo film modesto può deludere, soprattutto considerando la sconfinata produzione del regista tra cui spiccano degli autentici capolavori, però a fine visione restano comunque tutti questi elementi di cui sopra che ci fanno capire come anche dietro a una produzione cosi superficiale e caciarona sia stato fatto spazio per delle riflessioni, per quanto piccole e per quanto confuse. È un enorme distributore di chewing gum colorati impazzito, come quello rappresentato nel film e che torna insistentemente, scaricandoci addosso a ritmo forsennato una straordinaria quantità di suggestioni, senza lasciarci il tempo di masticarle adeguatamente.

Si tratta di un film che dichiara la propria finzione, ci mostra il proprio confine segnato sulla sabbia e ci sfida a capirlo, o a dargli l’interpretazione che più ci conviene, e per questo comprendo il giudizio genericamente negativo che ho potuto constatare su questo lavoro. Questo in effetti è un film che si presta ad essere scartato nella pila dei trash usa e getta tanto quanto nell’analisi pignola di ogni suo elemento alla ricerca della nuova profezia sul cinema che speriamo Sono possa regalarci.

Ma mentre ci chiediamo dove collocare questo film nel nostro personale pantheon, possiamo comunque godere di quegli elementi che sono propri del regista e vengono ancora usati da lui in maniera eccellente. Ne appunto uno su tutti, per gusto personale: l’utilizzo della recitazione corale e performativa del suo cast, in particolare degli attori minori, che si muovono all’unisono battendo ritmi, eseguendo coreografie, recitando in coro e cantando, rendendo splendidamente evidente che stiamo vivendo un sogno lungo un film.