The Seven Year Itch - titolo originale - è un’acuta satira sociale della (neo)borghesia americana degli anni Cinquanta. La narrazione si snoda all’interno della dicotomia freudiana pulsione/repressione attraverso la caricatura della messa in scena e la netta tipizzazione dei personaggi. Billy Wilder, raffinato e trasversale autore di genere, si dimostra talmente a proprio agio entro i confini della commedia da esasperarli e parodiarli fin dall’esilarante prologo: gli antenati indiani che popolavano l’isola di Manhattan mandavano le mogli e i bambini “ai monti e al mare” per liberare i propri istinti repressi, così come a distanza di cinquecento anni continuano a fare i loro discendenti in giacca e cravatta. La voce narrante introduce il personaggio di Richard, “il tipico esemplare di marito di Manhattan la cui famiglia è in partenza per la villeggiatura”, incasellandolo fin da subito all’interno di una specifica categoria sociale.
Wilder ironizza sui tabù e il consumismo dell’America postbellica, scandaglia le possibilità del medium cinematografico e con attitudine ludica si abbandona sovente al piacere della (meta)citazione. “Ora hai cominciato a fantasticare in Cinemascope, con suono stereofonico”, lo prende in giro l’ologramma della moglie con cui il protagonista immagina di interloquire ogni sera. L’ingresso di Marylin, dopo circa dieci minuti dall’inizio del film, è una vera e propria apparizione: inarrivabile e vicina, affascinante e svampita, la diva si manifesta in tutta la prorompente bellezza. Lei, che per tutto il film sarà semplicemente ‘la Ragazza’ - un (s)oggetto del desiderio privato anche della dignità di un nome proprio - risponde a pieno all’orizzonte d’attese dello spettatore. Nella sequenza in cui i due protagonisti escono dalla sala cinematografica - il film in cartellone è l’horror fantascientifico Il mostro della laguna nera - il corpo della diva si smaterializza ed assurge a icona pop; l’immagine del vestito bianco sollevato dal soffio di vento salito dalle grate della subway, si cristallizza per sempre nell’immaginario culturale del ventesimo secolo.
Nel racconto cinematografico classico, il personaggio è inscindibilmente legato alle precedenti interpretazioni della diva. La schematica classificazione in categorie e tipi permetteva allo studio system di riprodurre una sfaccettata gamma di modelli umani e sociali in cui lo spettatore poteva identificarsi, o più verosimilmente trovare ispirazione. Il processo di deificazione degli attori perpetrato dall’industria cinematografica sin dai suoi albori - il sociologo francese Edgar Morin fu tra i primi ad emancipare il fenomeno divistico dalle pagine del rotocalco - affonda le sue radici nel substrato antropologico e sociale del secolo scorso. La nutrita costellazione di star, connotate nel tempo dai medesimi caratteri e simbolismi, veicolava automaticamente nell’immaginario dello spettatore una serie di mondi possibili. Ogni divo era associato ad un genere cinematografico specifico: Humphrey Bogart e James Cagney al poliziesco o al gangster movie, Ginger Rogers e Fred Astaire al musical, John Wayne al western, Cary Grant e Katharine Hepburn alla commedia romantica e così via. In alcuni casi, fra cui quello della Monroe, l’aura divistica era talmente potente da produrre una sorta di specifico ‘sottogenere’.
Quando la moglie è in vacanza nasce e debutta come commedia teatrale al Fulton Theatre di New York nel 1952. Dopo l’eclatante successo di pubblico, si parla di novecento repliche in tre anni, lo sceneggiatore George Axelrod - suo lo script di Colazione da Tiffany - decide di adattare il soggetto per il cinema. Nel 1955 - anno d’uscita del film - le maglie della censura sono però ancora troppo strette per parlare liberamente delle smanie erotiche dell’average American. Quando il produttore Darryl Francis Zanuck decide di portare la fortunata commedia di Broadway sul grande schermo, fra i divieti imposti dal Codice Hays c’è ancora quello riguardante il tema dell’adulterio. Attraverso numerosi escamotage e un momentaneo passaggio di Wilder dalla Paramount alla 20th Century Fox, il film riesce comunque a superare tutti gli ostacoli che lo separano dalla distribuzione. Zanuck impone a Wilder di mantenere il caratterista Tom Ewell nel ruolo di protagonista, e soprattutto di sostituire alla bruna austriaca Vanessa Brown la sua pupilla Marilyn.
Quando la ventinovenne losangelina lavora per la prima volta con Wilder è all’apice della sua carriera grazie alla consacrazione raggiunta con Niagara (1953) e Gli uomini preferiscono le bionde (1953). La scelta del cast si dimostra vincente - il film ottiene ottimi incassi, buona accoglienza critica e il Golden Globe per l’interpretazione di Ewell - ma per Wilder risulta così difficile contenere le eccentricità di Marilyn sul set che dichiara di non volerla dirigere mai più. Fortunatamente, appena quattro anni dopo, si rimangia le sue parole e firma A qualcuno piace caldo, pietra miliare della storia del cinema inimmaginabile senza l’irresistibile verve comica della diva.