Tratto da Pittura su legno, pièce giovanile del regista scandinavo, Il settimo sigillo forma un dittico d’ambientazione medievale insieme al lungometraggio di tre anni successivo La fontana della vergine, storia di vendetta miracolosa tratta da una leggenda svedese del XIV secolo.

Per il cineasta di Uppsala, la cui fantasia si sprigionava in tenera età nella casa della nonna a Delercalia guardando le forme cangianti della lanterna magica, non è mai stata una questione di filologia, men che mai per il simbolismo estetizzante che cattura sguardo e animo ne Il settimo sigillo. Si potrebbe parlare semmai di archetipi inconsapevoli che fluiscono senza sosta e che si ancorano ad un nichilismo “attivo” in cui la filosofia sposa il declinante antropocentrismo e la letteratura si fa coordinata emozionale.  

È in una cornice icastica in bianco e nero che si palesa l’epifanica geste cavalleresca reinventata dall’ispirazione demiurgica dello storyteller nordico, qui in versione saltimbanco volteggiante tra drammaturgia classica e buffoneria da taverna. Sfruttando il retroterra leggendario della partita a scacchi con la morte, costruisce grandi quadri pittorici irrelati contaminando la commedia del singolo (lo scudiero sboccato) con quella collettiva (i giullari attori), il dramma individuale (del miles christi) con lo smarrimento della moltitudine (processione dei penitenti).

Come nelle Chansons de geste il film mette in sequenza scene con significato autonomo, similmente alle formelle giustapposte delle cattedrali dove si smarriva l’estasi del giovane Bergman, tra i serpenti del Paradiso e l’asina di Balaam. Un’opera nell’opera, l’arte che racconta la vita. Se fosse letteratura sarebbe una recherche cavalleresca, se fosse dipinta somiglierebbe all’incisione di Dürer Il cavaliere, la morte, il diavolo, mentre se si potesse ascoltare, risuonerebbe come il tuonante Dies Irae a prefigurare l’Apocalisse. Il “silenzio di Dio”, lontano dall’essere modello per un kammerspielfilm come per la trilogia a venire, è speculazione attiva tra Proust e Kierkegaard, è pienezza vitalistica che si chiude con la più gioiosa tra le danse macabre del grande schermo.

In collaborazione con Mediacritica