L’urlo di El Chuncho alla fine di Quién sabe? (1966), con la sua ingiunzione ai messicani oppressi a comprare armi invece che pane, non può che risuonare politico e liberatorio nella seconda metà degli anni Sessanta, anche all’interno di un film di genere. Questa consapevolezza emerge tanto dalle dichiarazioni di chi lavorava al film, che nella critica che lo vedeva in sala. Damiani e il suo aiuto regista, Enrico Bergier, sono concordi nel definirlo rispettivamente “un film politico” e “un grosso film rivoluzionario, sul comportamento del rivoluzionario”. Lou Castel trova nel suo personaggio l’antagonismo negativo “rispetto a quello che ne è l’opposto, un rivoluzionario”.

Tra i recensori, Mino Argentieri su Rinascita coglie “tra le bambocciate e gli ingredienti abituali del ‘genere’,  [...] un lampo d’intelligenza che torna a illuminare  [...] l’intrattenimento”, mentre Piero Bianchi su Il Giorno qualifica il film come vitale “perché vi prevalgono il gusto europeo della cultura e il dubbio sul significato dell’esperienza esistenziale”. Tullio Kezich giudica Quién sabe? come il miglior film realizzato da Damiani e si chiede se “l’ideologia del western italiano, dietro  [...] spettacoli tanto ricchi d’azione quanto privi di pensiero, è forse l’anarchismo?”. Sul versante opposto di chi non ha apprezzato il film, l’argomento è comunque il medesimo, ovvero il tentativo di infondere nel ‘genere’ significati politici ed estetici. Così Aldo Bernardini su Cineforum bolla il film di Damiani come “un prodotto manierato, ibrido, dotato di buone intenzioni spettacolari ma insincero” per le ambizioni del regista, “la sua tendenza per le ricercatezze formali, per le psicologie contorte e fumose”.

A quasi sessant'anni dalla prima uscita in sala, Quién sabe? torna nella bellezza di un restauro in 4K che restituisce tutta la spettacolarità originaria al confronto tra il cacciatore di taglie gringo, Bill Tate (Lou Castel), e El Chuncho (Gian Maria Volonté), il sovversivo riluttante che prende progressivamente coscienza dell’importanza della causa rivoluzionaria messicana rispetto al valore del denaro. Nel nostro mondo neoliberista, il grido di El Chuncho risuona sempre più strozzato e ha un percorso ideologicamente inaspettato nel cinema dello stesso Damiani, che lo trova assimilabile alla scelta del Brigadiere Graziano di Io ho paura (1977), interpretato sempre da Volonté: “È smarrito, potrebbe voltarsi dall’altra parte ma dentro di sé ha una straordinaria forza morale, e cambia. In fondo capitava lo stesso a El Chuncho. A me sembra che il risultato sia toccante senza contenere prese di posizione politiche. Il clima è dostoevskiano”.

Si noterà che, dopo dieci anni, la scelta ha perso, anche per lo stesso regista, le sue connotazioni politiche e il rivoluzionario consapevole viene assimilato al poliziotto in lotta contro il terrorismo nero ma anche contro l’estremismo di sinistra del '77. Cinque anni più tardi, nella settimana in cui muore Franco Solinas, che intervenne profondamente sulla sceneggiatura di Quién sabe?, la Rai mette finalmente in onda Parole e sangue, un film televisivo in tre puntate su un gruppo di improvvisati terroristi rossi. Damiani dichiara che “il titolo è un po’ il segno di un percorso, dal manierismo ideologico del Sessantotto alla gestualità rivoluzionaria di questi anni”. Ripensando a Parole e sangue nel 2004, il regista sembra scomunicare definitivamente El Chuncho: “Tra parole e sangue c’è una contraddizione: si dovrebbero escludere a vicenda”.

Rivivendo le spettacolari gesta di El Chuncho per procacciarsi armi da rivendere alla Rivoluzione, tuttavia, non ne siamo così sicuri: la retorica delle immagini ci conquista quanto quella del grido finale. Certamente, nel cinema di Damiani, genere e retorica politica non si escludono a vicenda.