Una volta attenuati i crampi allo stomaco con cui si esce dalla sala, non può che sorgere un dubbio riguardo al “sospetto” al centro di questo capitale noir londinese di Robert Siodmak del 1945 (il cui titolo originale è appunto The Suspect): chi è il sospetto o, meglio, chi lo desta in chi? Philip Marshall, bonario e rispettabile commerciante di tabacco che resta provvidenzialmente vedovo, nell’ispettore Huxley, certo.
Ma ancora più forte e insidioso è quello che il protagonista nutre riguardo a sé stesso e di riflesso sul proprio ambiente sociale, forse sin dall’inizio, e lo spettatore con lui. Solo che, non appena viene annunciata la dipartita che sembra dover sciogliere felicemente la vicenda e invece dà avvio all’indagine, il suddetto spettatore si trova a diffidare del proprio atteggiamento morale e, in definitiva, della propria posizione nel mondo (almeno fin quando coincide con la poltrona di un cinema). Si finisce a sospettare del sospetto, insomma – da cui i tormenti interiori con annessi e connessi contorcimenti della personalità.
Ricapitoliamo la trama, ispirata al racconto This Way Out di James Ronald e molto alla lontana a un celebre caso di cronaca nera statunitense, di cui resta memoria nel nome della vittima. Con sommo godimento del pubblico Charles Laughton presta il suo multiforme ingegno, il suo sguardo sfavillante e la sua maestosa pappagorgia a Marshall, perseguitato dall’insopportabile moglie Cora, che si ostina a negargli il divorzio persino dopo aver scoperto della sua relazione segreta con la giovane Mary Gray. Anzi, in una climax di sadismo coniugale, minaccia di rovinare la reputazione dell’amorevole stenografa.
Quando, però, questa Santippe cockney muore precipitando dalle scale e lasciando al marito una cospicua eredità che gli permette di risposarsi senza preoccupazione alcuna, un segugio di Scotland Yard comincia a far domande importune non solo al diretto interessato ma anche al vicinato. S’innesca così un crescendo di menzogne a fin di bene, spregevoli ricatti e sublimi impennate di tensione che coinvolgerà, suo malgrado, anche un vicino alcolizzato col callo della brutalità domestica.
Con la complicità del sapiente Paul Ivano alla fotografia Siodmak, esule tedesco a Hollywood dallo scoppio della seconda guerra mondiale, congegna un meccanismo di suspense quasi insostenibile a partire da pochi, sceltissimi elementi (valorizzati dal restauro del negativo originale in nitrato): il buio concesso dal mobilio kitsch delle villette a schiera, la nebbia apparentemente innocua dei quartieri residenziali della Londra edwardiana, battute ripetute con intenzioni diametralmente opposte rispetto alla prima occorrenza, l’indecisione tra chi sia davvero vittima e chi davvero colpevole, e soprattutto un uso geniale del fuoricampo.
Non si assiste direttamente ad alcun crimine perché le azioni omicide si consumano lontano dalla macchina da presa, persino l’avvelenamento di una bottiglia di whiskey tramite una boccetta di sonnifero in gocce che – superbo tocco di macabra ironia – proprio la moglie del morituro aveva suggerito all’assassino.
Magari ripensando alla concentrazione psicologica del Kammerspielfilm il regista di Dresda (rasa al suolo dai bombardamenti angloamericani due settimane dopo la prima del film) riflette sull’irriducibilità della natura umana alla giustizia costituita e, nell’interrogarsi sul concetto di colpa e sulla legittimità del male, penetra nella coscienza dello spettatore per insinuargli il desiderio che non tutto vada come deve andare. Tanto da fargli sperare che la passeggiata finale di Marshall, più solo e sollevato che mai, non conduca affatto, come si aspettano i rappresentanti della legge, al commissariato.
Perciò per quanto Siodmak, contrariamente alle regole canoniche del noir, non si sforzi di occultare l’identità dell’unico colpevole, quando sullo schermo compare la scritta “The end” è difficile liberarsi dalla sensazione di essere correi di un duplice reato e, una volta accese le luci, si cerca negli occhi dei propri vicini quell’intesa di voluttà che solo un delitto impunito – ci immaginiamo – saprebbe dare.