Guardando Rapito di Marco Bellocchio torna spesso alla mente Esterno notte (2022) e le ragioni sono varie e intuibili. Innanzitutto parliamo, ovviamente, di due film di Marco Bellocchio, usciti a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, entrambi molto ambiziosi e sintomo di una notevole vivacità creativa; condividono poi gran parte del cast, sia nei ruoli principali che in quelli secondari; raccontano entrambi degli eventi importantissimi nella storia d’Italia, che si intrecciano con una riflessione profonda sul potere in senso universale.

Infine, sia Rapito sia Esterno notte raccontano la storia di un rapimento, di un atto di violenza verso un individuo, che è in realtà un atto politico e che si lega a doppio filo al contesto storico e socioculturale in cui avviene. Aldo Moro, martire in Esterno notte, è sostituito in Rapito dal piccolo Edgardo Mortara, ebreo sottratto alla famiglia su ordine di Papa Pio IX, per avere un’educazione cattolica. Sullo sfondo c’è il Risorgimento e la lotta contro il potere temporale della Chiesa.

Non ci sono dubbi su chi sia la vittima e chi il carnefice, Bellocchio mette in chiaro da subito che la Chiesa, impersonificata prima dall’inquisitore Feletti (Fabrizio Gifuni) e poi dal Papa (Paolo Pierobon), è l’antagonista di questa storia, un tiranno contro il quale prende forma una ribellione che passa prima attraverso una forte pressione politica e poi attraverso la forza, con la presa di Roma da parte dell’esercito italiano.

Tuttavia, questo sfondo storico, che dialoga spesso con il racconto del film, non ha mai quella potenza che gli consenta di trascendere i semplici fatti e diventare vero e proprio spettacolo cinematografico. L’impressione finale è che quella di Rapito sia una storia piccola, riguardante un manipolo di individui, senza la portata internazionale che viene costantemente rivendicata a parole dai personaggi.

Eppure i momenti di grande cinema non mancano: alcune parentesi oniriche, come il sogno di Edgardo che libera Gesù dalla croce – e metaforicamente riconosce l’ingiustizia perpetrata nei suoi confronti – o diverse sequenze di montaggio alternato rendono evidente il gusto estetico di Bellocchio. Ma preso nel suo insieme il film non riesce ad avere quel respiro epopeico che ci si aspetterebbe, complici anche dei probabili limiti di budget nelle sequenze più complesse o corali.

Che Bellocchio sia un regista ancora estremamente moderno è indubbio; così come è evidente che da alcuni anni a questa parte abbia intrapreso una deriva più commerciale. La domanda che bisogna porsi, però, è come il cinema italiano possa essere recepito a livello internazionale quando racconta storie di grande portata come questa. Se manca quel respiro internazionale presente in altre cinematografie, anche europee, capace di coniugare racconto nazionale con ambizioni globali, è evidente che film come questo possano avere vita breve al di fuori del circuito festivaliero.

È però interessante approfondire proprio questo progressivo avvicinamento di Bellocchio a forme estetiche e narrative più commerciali e popolari. Già prima della sua incursione televisiva con Esterno notte, Bellocchio si era avvicinato alle forme narrative della serialità coinvolgendo nella scrittura di Il traditore (2019) autori provenienti proprio dal mondo delle serie TV, come Ludovica Rampoldi o Francesco Piccolo. E pochi mesi fa Bellocchio ha annunciato di avere in programma la sua seconda serie TV, questa volta dedicata al caso di Enzo Tortora – altro racconto di ingiustizia.

Il fatto che dopo una carriera lunga e costellata di successi Bellocchio decida di cimentarsi in un tipo di contenuto lontano da quelli che lo hanno reso celebre non può che far piacere e suscitare interesse per il futuro artistico di questo autore.