Spesso e volentieri, seguire e analizzare da vicino il cinema d’animazione più mainstream permette di comprendere meglio le dinamiche che guidano il mondo dell’intrattenimento tout court. Questo perché, negli ultimi anni, il cinema è passato da ricoprire un ruolo privilegiato di scopritore e creatore di tendenze, a diventare un’industria che, quelle stesse tendenze, le insegue. Inutile infatti negare quanto le nuove generazioni siano molto più attratte dal mercato videoludico o da quello seriale. Certo, il cinema non ha (per fortuna) persona ancora il grande valore artistico e commerciale che da sempre è riuscito a cucirsi addosso, eppure sembra che siano finiti i tempi in cui questo settore poteva permettersi di scolpire un immaginario, costruirlo. Ora viviamo in un’epoca in cui il grande schermo sembra piegarsi alla società e assecondarla. Il cinema non crea più un bisogno, ma lo soddisfa.
Raya e l’ultimo drago è il nuovo classico di animazione Disney. Potremmo concentrarci molto sulla deriva che la casa di Topolino sta prendendo negli ultimi anni (perlomeno quella legata ai classici e non a tutti gli altri progetti annessi quali Pixar, Marvel, Star Wars ecc). Eppure ciò che maggiormente salta all’occhio durante la visione di questo lavoro è proprio la sua abilità nell’accontentare il pubblico di oggi senza dover per forza privarsi della sua componente più genuina e, perché no, politica. Si tratta infatti di un film pienamente ancorato al qui e ora più recente, da un punto di vista narrativo, tematico e anche di mercato. Sono anni di grandi e repentini cambiamenti sociali. Le minoranze stanno finalmente trovando una loro voce in grado di rappresentarle e hanno poco alla volta trovato il supporto delle major. Disney da tempo sta allargando il suo orizzonte, provando a spostare il mercato dei suoi prodotti anche laddove spesso si era fatta meno attenzione. Raya e l’ultimo drago quindi prova a sdoganare l’idea di una principessa acqua e sapone per ergere a protagonista una ragazza guerriera nata e cresciuta in un mondo lontano (a Oriente).
Sarebbe però riduttivo limitare il discorso a questa componente. L’aspetto di maggiore interesse è infatti la costruzione di un impianto narrativo ricalcato in maniera millimetrica sulla narrazione videoludica. C’è una missione da compiere, cinque “livelli” da superare che comportano cinque nuovi mondi da esplorare. Infine, un ultimo grande scontro che si rivelerà essere la prova più complessa. Tutto torna, così come l’intenzione di Disney di schierarsi. In un periodo storico (e un anno ancor più particolare) incline alla divisione e al distanziamento, Raya e l’ultimo drago è un inno alla comunità, alla fiducia, all’unione di intenti.
La missione intrapresa dalla ragazza riguarda proprio una ricostruzione. La protagonista non dovrà fare tanto i conti con mostri, spadaccini, incantesimi, quanto con il peso della tradizione. Il nuovo fa fatica a imporsi e a proporre uno sguardo diverso. Il vecchio (prestate attenzione all’età anagrafica degli antagonisti del film) è troppo difficile da scardinare. Per convertire uno sguardo, una mentalità, ci vuole tempo, ci vuole coraggio, ci vuole fiducia. Insomma, le tre caratteristiche che l’eroina dovrà dimostrare di possedere per provare a superare il livello, portare a termine il gioco e convincere il cinema mainstream che sì, tutto è possibile.