Sollecitato da amici e lettori, faccio seguire questo Diario di Peschiera allo scritto pubblicato nel n. 2/1985 a proposito dell’arresto, del processo e della condanna del Tribunale militare da me subiti, insieme a Guido Aristarco, nel 1953, per avere io scritto, e Aristarco pubblicato sull’allora quindicinale “Cinema Nuovo”, una proposta di film intitolata L ’armata s’agapò, nella quale si parlava in termini critici della occupazione militare italiana della Grecia, nel corso della guerra di aggressione fascista. Nel numero precedente riprendevo il racconto del mio arresto, avvenuto a Bologna, per essere avviato al carcere militare di Peschiera, racconto già pubblicato nel n. 42/1955 de “Il Contemporaneo”. Questo Diario di Peschiera si giova, invece, di alcuni tratti dello scritto già apparso nei successivi nn. 43 e 44 dello stesso periodico, integrato, però, da episodi che allora non raccontai.

La pubblicazione di queste pagine accompagna l’imminente uscita, su RAI 3, di un programma, della serie Teatro inchiesta, intitolato L’armata s’agapò. Il caso Renzi-Aristarco, diretto da Pino Passalacqua. Il Diario è dedicato al periodo di carcere preventivo, una quarantina di giorni trascorsi nella nota fortezza sul Garda, in attesa del processo che poi si svolgerà a Milano. Va aggiunto che l’episodio clamoroso porterà ad una modificazione dei limiti di giurisdizione dei Tribunali Militari e dello stesso regolamento carcerario, nella faticosa marcia di fuoriuscita dal fascismo, intrapresa dalla parte più moderna del paese.

(Renzo Renzi)

 

In istruttoria, davanti al generale Solinas

Nella cella, abbastanza ampia, sono rinchiuso solo. Un attendente che mi è stato assegnato – un aviere romano, imprigionato anche lui per non so quale insubordinazione – ha già pulito il pavimento, rifatto il letto e vuotato il buiolo. Sto dividendo con lui i biscotti e la cioccolata che ci hanno portato Visconti e la sua ‘troupe’. Mentre stacco dal tavolo le caramelle liquefatte, durante la notte, dall'umidità portata nel carcere dal lago, mi vengono a prendere per condurmi all’interrogatorio dell'istruttoria. Sarà il Procuratore militare del Tribunale di Milano, il generale Solinas, a fare le domande. Ma io, come dovrò comportarmi, come dovrò stare? Sull'attenti, mi è stato detto, perché sono tornato in servizio, l'arresto vale come un richiamo alle armi. E il saluto come dovrò farlo, dal momento che sono in borghese, mentre il saluto romano per questi casi è stato abolito dal 25 luglio 1943? In realtà, i venti mesi trascorsi nel lager tedesco dopo l'8 settembre sono serviti anche a favorire un processo di mia completa smilitarizzazione, fino all'istintivo rifiuto di tutte quelle forme.

Sulla porta della stanza riservata all'interrogatorio mi attende l’assistente del Procuratore militare, il quale si comporta cortesemente, mi ripete che dovrò stare sull'attenti, si dice amico di giornalisti e, in particolare, di Indro Montanelli, “il giornalista principe”, come lo definisce. Il generale Solinas è un piccolo sardo, abbastanza rotondo. Seduto dietro un tavolo, tiene davanti a sé il numero di “Cinema Nuovo”, aperto alla pagina dov'è il titolo del mio articolo, L'armata s'agapò, che io sbircio con apprensione, questa volta con gli occhi di lui. Il suo assistente si siede accanto al generale e incomincia a verbalizzare. Il generale mi chiede che cosa io possa dire di fronte ai reati che mi vengono contestati: “vilipendio delle Forze Armate e dell'Arma di cavalleria”, (mandato di cattura e arresto preventivo fino al processo, pena da due a sette anni, condizionale fino ad un anno, rimozione dal grado).

Stando sull’attenti (però è faticoso parlare in questo modo, senza gesticolare), io dico la mia, col cuore in mano: “Non intendevo colpire l'Esercito, ma la guerra fascista di cui l’Esercito era stato un semplice strumento”. Il generale mi guarda, poi detta le mie parole al cancelliere assistente, che le scrive. Quindi comincia a contestare qualche punto, qua e là, del mio racconto (la contestazione a tappeto avverrà soltanto in aula). Siccome, dettando le risposte, forse istintivamente, modifica le mie parole in un senso a me sfavorevole, sono costretto per un po' di volte a correggerlo; finché, spazientito, il generale mi dice: “Va bene, detti lei”. Ma ecco che mi attende una trappola. Io sono tenuto a provare gli episodi narrati (poi saprò che, in realtà, il reato di vilipendio non pretenderebbe proprio queste prove).

Naturalmente, benché io sappia che tutto ciò che ho scritto è davvero ‘vita vissuta’, come si dice; però non avendo mai pensato, mentre scrivevo, di dover affrontare un simile evento; né avendo più riletto il mio scritto, apparso molti mesi prima; né essendo stato messo in grado, per via dell'arresto, di parlare coi possibili testimoni, cioè i miei commilitoni durante l'occupazione della Grecia; per tutte queste ragioni sono costretto a dare generiche risposte: “Le donne greche prese per fame, tariffa una pagnotta? Lo sapevano tutti e lo facevano in molti”. “Il ragazzino greco, che si chiamava Gliaco, fucilato dalle nostre truppe? Avevo annotato l’episodio in un diario”. “I soldati che sparavano sugli ufficiali? È successo nel mio Battaglione”. “I soldati che si suicidavano perché non ottenevano licenze di rimpatrio da anni? Anche questo era annotato in un diario, ma soprattutto lo ricordo bene io!”. “Le razzie di olio e di capretti per migliorare il rancio dei nostri soldati? Ecco, a queste cose ero stato comandato anch'io!”. “E lei l'ha fatto?”, interviene a questo punto Solinas. “Si, l'ho fatto”. Riprende secco, Solinas: “Codice penale militare di guerra. Articolo tal dei tali... La incrimino anche per quest'altro reato”. (Mi dissero poi gli avvocati che simili reati, ammesso che io fossi davvero incriminabile, erano già caduti in prescrizione, quindi avrei potuto insistere nella testimonianza diretta di fatti da me compiuti dietro comando, senza produrre conseguenze sensibili e semmai rafforzando la mia posizione). “In realtà, in cambio dei capretti e dell’olio io davo ai greci dei buoni di pagamento da riscuotere al comando di Reggimento. Ma protestai anch'io, più di una volta, quando seppi che questi buoni non venivano pagati e perciò noi si perdeva di credibilità davanti alla popolazione locale”.

“Qui c’è scritto – insiste il generale – che l'Arma di cavalleria, in Russia, andò incontro ad una fine ‘grottesca’. Le pare una definizione rispettosa di quel sacrificio?”. “Cavalli contro carri armati. Si aggrediva un altro popolo, poi non si usavano nemmeno i mezzi adeguati, sacrificando scioccamente i nostri soldati. Tutto ciò a me è parso ‘grottesco’”. L’interrogatorio procede con grande durezza del tono. Ho l'impressione che Solinas mi odi, non riesco a capire perché. È, comunque, un segno della sua buona fede. Pare specialmente turbato dalla rappresentazione delle donne greche prese per fame. Dice di difendere il loro onore, negando la circostanza della facile prostituzione. Se nacquero amori, erano amori sinceri. Da parte mia, penso di difendere il loro onore nella maniera contraria: siccome la prostituzione era molto diffusa (la casa di tolleranza era diventata il luogo centrale del tempo libero, nei Presidi) la fame terribile che muoveva quelle povere donne ne giustificava il comportamento e toglieva ogni merito alle nostre conquiste amorose. In realtà, io volevo colpire il gallismo italiano, seguendo la lezione dei romanzi di Vitaliano Brancati. Certo, anche per quest'aspetto, io mi comportai come gli altri. Ma poi, ripensandoci... ripensando per esempio a quella ragazza che, una sera, si gettò sulla pagnotta che le offrivo e, spezzandola, la trovò brulicante di formiche rosse e noi due a soffiare sulla pagnotta per togliere le formiche che ci coprivano le mani, poi vederla così avidamente mangiare quel pane... Alla fine di un'avventura si compiono le associazioni necessarie: per esempio, questi amori associati allo spettacolo dei vecchi e dei bambini rantolanti, per poi morire, sui marciapiedi di Atene.

Forse il generale, anch'egli presente in Grecia in un Tribunale militare, ha fatto altre esperienze. In aula mi diranno che egli è coniugato con una donna greca, incontrata durante l'occupazione. Ma ora egli estrae all’improvviso un quotidiano di Atene, “Acropolis”, che ha riportato per intero, tradotto in greco e in prima pagina, il mio scritto. Naturalmente io sono felice di quella traduzione, ma il generale mi guarda come se fosse la prova di un tradimento. Poi mi mette il giornale sotto il naso e mi dice: “Legga e traduca”. Di leggerlo, il greco d'oggi, sono capace, naturalmente tenendo conto degli iotacismi. So che l’antica Azenai oggi si legge Azine, che si avvicina di più all’italiano Atene. Ma in quanto a tradurre, benché il greco antico l’abbia studiato a scuola... Noi si usava sempre l’interprete, che ci seguiva per ogni dove: e che, spesso, era un nostro informatore, ma può darsi anche un informatore dei partigiani greci. Comunque, non capisco quella prova impostami dal generale. Che sospetti un complotto internazionale? I greci, in realtà, avevano tradotto il mio scritto, che gli era evidentemente piaciuto, a mia completa insaputa.

Per farla breve: alla fine Solinas mi congeda con un “arrivederci in aula”, mentre io vengo consegnato a una guardia che mi riconduce nella cella, a ripensare all'incontro, con l’apprensione di chi non ha potuto produrre molte prove (Ufficiali subalterni e soldati si presenteranno poi spontaneamente in aula, durante il processo, per confermare con nuovi particolari la gran parte dei fatti da me narrati. Lo schieramento testimoniale vedrà, da una parte, quasi tutti gli ufficiali superiori schierati contro di noi; dall'altra, quasi tutti gli ufficiali subalterni e i soldati schierati decisamente a favore. Anche la verità portava, dunque, il segno della gerarchia e delle classi). Tra le inferriate della finestra che dà sul corridoio cammina avanti e indietro una sentinella. Di notte, dopo il silenzio, i soldati di guardia indossano scarpe di pezza per non disturbare un sonno a luci accese che tarda molto a venire.

Povero Guido!

Dopo questo interrogatorio ho potuto vedere finalmente Aristarco. Imparo qui che Aristarco era stato sergente. Lo vedo, la prima volta, in fondo ad un corridoio, dietro molte sbarre. Sorride con l'aria di chi si trova in una situazione grave, cioè con un dolore trattenuto. Io sono imbarazzato perché l'ho trascinato qui dentro con un mio articolo. Inoltre lo vedo trattato assai peggio di me, a causa del regolamento. Infatti, dopo averlo lasciato cinque giorni in una cella interrata, in isolamento, sul tavolaccio, ora lo hanno spostato in una cella comune, con un'altra decina di soldati. Contrariamente a ciò che viene permesso a me, non può tenere cerini in cella, né fumare; mangia il rancio in gavetta, non può acquistare vino, né superare, nella spesa, la cifra di 200 lire al giorno. Può scrivere solo ai familiari, una volta ogni quindici giorni; deve pulire la cella con la ramazza e le latrine col secchio a turno con gli altri. Soffre un gran freddo, di notte, perché i suoi compagni di camerata tengono le finestre aperte, seguendo la regola secondo la quale le finestre vanno chiuse soltanto all'ora dei pasti per favorire, col caldo, la digestione. Dorme in una branda che non può aprire di giorno, restando perennemente in piedi. Non ha la facoltà di tenersi valigie, né di leggere settimanali illustrati, tranne “La Domenica del Corriere”. Come tutti i soldati, del resto.

La mattina, sveglia alle 6, prepara il caffè, che poi mi porta, un poco più tardi, perché io, come ufficiale, non ho sveglia, posso stare sdraiato a letto finché voglio, scrivere a chi voglio, bere il vino, acquistare i cibi che voglio, incaricando il personale. Ho persino un attendente, come dicevo. Se il comando del carcere deve comunicarci qualcosa, si rivolge a me perché io lo riferisca ad Aristarco, mio ‘inferiore’ (ma verrò poi rimosso dal grado “per avere concorso nel reato con un inferiore in grado militare”). È, del resto, con questa procedura che il comandante del carcere, per venirci incontro nei limiti del regolamento, ha affidato a Guido e a me (pardon! a me e a Guido) l’incarico della biblioteca, che abbiamo incominciato a riordinare, indirizzando anche un appello, per mia mano ma con molte indicazioni di Aristarco, agli editori amici, affinché inviino libri.

Nel giro di una settimana i libri sono arrivati in gran numero, aumentando sensibilmente le frequenze, nella biblioteca, degli altri detenuti, che ci vengono a trovare.

Il lucidatore di mobili

Guido ama molto i libri, che sa incartare magnificamente. Abbiamo anche iniziato una catalogazione. Intanto, anche nel carcere sono cominciate a trapelare le notizie della campagna di stampa che i nostri colleghi hanno iniziato intorno al nostro caso. Tutto ciò crea una specie di euforia tra gli altri detenuti perché, di riflesso, sentono che due dei loro hanno, in qualche modo, vinto l'isolamento, sono ricordati di fuori. Giornali non ne arrivano, tranne “La Gazzetta dello Sport” e, appunto. “La Domenica del Corriere”. Gli ufficiali, naturalmente, hanno il diritto in più di qualche giornale illustrato.

Ufficiali e soldati, com’è ovvio, sono divisi. Prendono le ore d'aria in cortili diversi. Tuttavia ho potuto parlare un poco con un soldato perché sta lucidando i mobili degli uffici del Comando, dov'è la biblioteca. È un romano, d’origine sarda, piccolo, bruno, insofferente e chiacchierone. È stato imprigionato più volte per furto. L'ultimo furto lo ha compiuto sotto le armi, perciò ora si trova in un carcere militare, dopo avere frequentato quelli civili. Questa ennesima avventura l'ha messa in versi, sull'aria di Come pioveva, per dirci che, insomma, la notte di Natale, mentre con amici, “si godeva il divertir”, ruba una macchina e poi scopre che era la macchina del Sindaco. Risultato: otto mesi.

Gli chiedo come mai abbia continuato a rubare, dopo la prima condanna. Mi spiega che faceva il lucidatore di mobili. Il mestiere gli piaceva, lo aveva imparato in riformatorio. Ma, ogni volta che denunciavano un furto nel suo quartiere, la polizia andava a prendere lui, anche quando si trovava presso i clienti. Che prestigio volete che avesse uno che veniva continuamente fermato dalla polizia? Perché, per fare il lucidatore di mobili, ci vuole prestigio: infatti uno che è continuamente sospettato di furto non può frequentare le case dei clienti. Poco a poco non lo vogliono più. Così, adesso, il suo mestiere può esercitarlo almeno stando in prigione.

Dallo stesso ho imparato il gergo dei ladri di Tor di Quinto, che mi sono diligentemente annotato. Il lucidatore di mobili è molto fiero di potermelo insegnare.

La condizione di ex balilla

Ho messo il tavolo della cella sotto la finestra sbarrata che dà sul corridoio, perché lì c’è più luce per leggere e scrivere. I soldati comandati in servizio di sorveglianza si fermano davanti alla finestra e mi raccontano i loro guai. Chiedono che cosa stia scrivendo. Sono infatti impegnato nella stesura di un piccolo memoriale che vorrei presentare alla corte, per ripetere che la mia intenzione non era quella di attaccare l'esercito, ma la guerra fascista che aveva messo tutti noi nella condizione tragicomica, da me illustrata, di vincitori che non avevano vinto, di occupanti che costruivano orti e allevavano conigli in mezzo a ridicole fortificazioni, di amanti latini conquistatori di povere donne greche affamate; e che pure non avevano evitato di compiere le crudeltà indotte dallo stato di guerra, per finire poi a patire le pene dell’inferno, per venti mesi nei lager tedeschi, dopo l'8 settembre.

Una domanda che mi aspetto è la seguente: “Come mai tu, che hai rinunciato al ritardo concesso agli studenti universitari, per essere chiamato alle armi nel 1941, ora ti scagli contro una guerra che avevi accettato?”. Per dare una risposta si dovrà tentare di ricostruire la storia della nostra generazione (farò poi il tentativo in due libri: Dall’Arcadia a Peschiera, edito da Laterza, e Catene, tormenti e Charlotte, edito da Cappelli).

Un fatto è certo: noi andammo alla guerra anche per conquistarci il diritto di parlare liberamente, ricattati come eravamo continuamente dalla generazione più anziana, che di fronte alle nostre critiche sempre più pesanti verso tanti aspetti del regime, all'interno del quale noi si pensava illusoriamente di poter operare per trasformarlo – questa generazione più anziana ci rimproverava di non avere fatto nulla che ci desse il diritto di parlare (citerò, al proposito, le esperienze del gruppo raccolto intorno al mensile bolognese “Architrave”, che avevo contribuito a fondare). D'altronde, dopo gli anni delle ‘adunate oceaniche’ si pensava che quella del fascismo fosse l'unica stabile realtà italiana. Inoltre, questa che avevamo fatto, ci era stata presentata come ‘la guerra dei popoli poveri contro i popoli ricchi’. Poi, fu proprio la guerra, con le sue efferatezze, ingiustizie (si aggredivano altri popoli poveri), delusioni, ad aprirci definitivamente gli occhi. Così, ci trovammo davanti al 25 luglio ed all'8 settembre come sacchi vuoti. Il lager tedesco o la lotta partigiana per chi la intraprese – pensando soprattutto di affrettare in tal modo la cessazione del massacro – condussero alla formazione delle nuove coscienze attraverso una ineludibile imposizione di scelte. Alcuni, non molti, si erano già mossi, durante il fascismo, verso quella meta liberatoria. Altri, invece, rimasero chiusi nella società che aveva fallito, anche dopo il suo crollo. Forse, penso ora in questo carcere, io mi sto scontrando con alcune rappresentanze di quest'ultima posizione.

In conclusione: se mi faranno quella domanda, risponderò in breve: “Avevo identificato la patria col fascismo”. Dovrei aggiungere: ero un ragazzo, un ex balilla. Ma non è poi vero che un popolo, quasi per intero, era caduto in quell’inganno? Adesso, in ogni caso, dopo cinque anni di servizio militare in stato di guerra, credo proprio di essermi conquistato il diritto di parlare: se non altro per ‘rendere testimonianza’. Verrò compreso?

L’amore è bello

Una novità rispetto alle mie passate esperienze militari: i segnali di tromba, incisi su dischi trasmessi dagli altoparlanti. Il fruscio del disco precede la tromba e funziona da vero segnale. Gli altoparlanti, nel cortile e nei corridoi, trasmettono i segnali, eventuali comunicazioni del Comando e musica riportata dai programmi radiofonici. C’è l’ordine, però, di non trasmettere troppa musica da ballo: perché, altrimenti, i detenuti ballano. È vero. Ieri mattina ne ho visti due, in cortile, che sfuggivano alla sorveglianza. Si trasmetteva un boogie-woogie. Un giovane carabiniere in pantaloncini cingeva un fante, accennando ad alcuni passi. Si prendevano per mano, erano molto seri, religiosi.

Anche il cinema ricorda la vita di fuori. Giorni fa hanno proiettato un documentario sulla vittoria di Coppi al Giro d’Italia e il film L'amore è bello di Bruce Humberstone, con Vera Ellen, David Niven e Cesar Romero. Un film rivista. Mi dice Aristarco che, nella sua camerata, hanno parlato tutta la notte delle gambe di Vera Ellen. I film, che si proiettano qualche volta, vanno scelti con cura. Ma non è facile. Dopo la proiezione di una comica di Stanlio e Ollio, un detenuto si eccitò, scese in cortile e picchiò tutti, finendo in cella di rigore.

La scuola è uno svago più efficace. C'è il problema degli insegnanti. Tutto sommato sono preferibili le donne. Attratti da un’esca simile, i detenuti sono indotti a frequentare con maggiore passione le lezioni. Quest'anno il provveditore agli studi voleva opporsi all’invio di donne. Ma è un errore. L’anno scorso un analfabeta imparò a scrivere perché si era innamorato della maestra. È vero che passò il segno. In aula si rendeva ridicolo, perciò gli impedirono di continuare a frequentare le lezioni. Disperato, in cella, teneva la testa tra le mani e invocava la maestra: “La mi tota, la mi tota”. Avrebbe avuto intenzioni serie.

La scuola aumenta anche l’interesse per i libri. Il cappellano dice che i soldati non sanno apprezzare i libri, non li meritano, perché li usano sconvenientemente, strappando le pagine e portandole alle latrine. Ma è chiaro che ciò si deve al fatto che qui, almeno per i soldati, manca la carta igienica. Dopo il nostro appello agli editori, come dicevo, la biblioteca si è arricchita di una ottantina di libri, nuovi molto belli e molto richiesti (forse per il piacere di tenere in mano cose pulite). I titoli dei libri che circolano maggiormente continuano tuttavia ad essere i seguenti: L'amore beffardo, Il mistero della rocca, I miserabili, L’inventore di donne, Con lei sulle orme di lui, Quasi tutto amore, Attingiamo all’amore (talvolta la parola ‘amore’ trae in inganno perché si tratta di sermoni religiosi, subito restituiti), I ribelli della Carolina, L'ardito del Conte Verde.

Gli ufficiali, invece, apprezzano Cronin e Guareschi. Nella biblioteche sono anche alcune pubblicazioni americane sulla democrazia e sulla libertà.

A proposito di Guareschi

“Candido”, il settimanale diretto da Giovanni Guareschi, è molto diffuso tra gli ufficiali di carriera. In un primo numero, assente il direttore, Massimo Rendina ha pubblicato un articolo in nostra difesa. Ma, tornato Guareschi, il settimanale ha rovesciato la linea, quindi ci insulta con scritti e vignette del direttore. Nella circostanza, due cose mi deprimono molto. La prima: Guareschi è stato nei lager con me e mi conosce bene. Eppure non spende una sola parola in mio favore, magari criticando il mio scritto, ma facendo salva, che so?, la mia buona fede. No, come non mi avesse mai visto, né conosciuto. La seconda: con le vignette mi rappresenta come uno che ha sputato sui morti. È un argomento indecente. Scrissi quella breve memoria sulla Grecia proprio perché ricordavo di avere perduto in guerra una buona parte dei miei più cari amici.

Anche Montanelli, mi dicono, sta parlando, contro di noi, di “libertà col colletto duro”. Montanelli aveva già scritto Qui non riposano, un libro dove il clima dell’occupazione in Albania è analogo a quello da me evocato. C’è, però, una differenza. Montanelli attribuisce i misfatti ai soli reparti di ‘camice nere’. Che (furba?) bugia! Anche lui parla dell’offesa ai morti. Gli risponderà Vitaliano Brancati: “Gli argomenti ricattatori non mi piacciono. La storia è fatta tutta di morti, e non si può sottostare al ricatto di chi, ogni volta che stiamo per esprimere un giudizio storico negativo, intona una marcia funebre durante la quale dovremmo toglierci il cappello”.

Chi formerà il collegio di difesa?

Vedo finalmente mio padre, venuto a portarmi qualche notizia. Chi ci difenderà al processo? In un primo tempo si erano generosamente offerti Piero Calamandrei e Umberto Terraccini. Ma la scelta parve rischiosa, ai fini della nostra liberazione, perché troppo politica. Ora, però, i nostri amici, in accordo con l'editore del quindicinale, Pellizzari, stanno eccedendo dalla parte opposta. Hanno persino fatto il nome di un avvocato decisamente di destra che, fortunatamente, ha rifiutato l'impegno. Pare che il collegio di difesa sarà infine composto dagli avvocati Dentala, Degli Occhi, Gallo e Paggi. Mario Paggi è un collaboratore de “Il Mondo” di Pannunzio, che ha lanciato un appello in nostra difesa sottoscritto dai più autorevoli intellettuali italiani. Solo le destre sono decisamente contro. Benché l’autorizzazione a procedere contro di noi sia stata sottoscritta dal ministro Gonella, membro di un governo che non ha ancora ottenuto – e che non otterrà – l'approvazione del Parlamento, si stanno muovendo a nostro favore – mi dice mio padre – anche grossi esponenti del mondo cattolico, come Raimondo Manzini e il Cardinal Lercaro. Si è persino costituito un Comitato pro Renzi e Aristarco, composto anch’esso da nomi assai noti. Questi fatti mi turbano perché so che vanno oltre la qualità del mio scritto e l'importanza delle nostre persone. Ma poi mi dico che, con il nostro quindicinale, evidentemente ci eravamo messi bene ‘in situazione’.

 

Renzo Renzi, Diario di Peschiera, “Bologna Incontri”, aprile 1985, pp. 13-16

 

Nella foto: immagine di articolo estratto da 'Vie Nuove', n. 37, 1953