Nella seconda parte di Risate di gioia (1960), film realizzato da Mario Monicelli dopo i successi de I soliti ignoti (1958) e La Grande guerra (1959), l’azione si sposta dai luoghi pubblici dove si festeggia l’arrivo del nuovo anno che caratterizzano la prima parte, ad una lussuosa casa privata di una benestante famiglia tedesca. Lello (Ben Gazzara) vuole sfruttare l’occasione dell’invito inatteso per realizzare il furto che ha tentato invano per tutta la notte di Capodanno, con l’incapace spalla Infortunio (Totò) e l’ignara Tortorella (Magnani).

Guardando tutte le piccole cose preziose esposte nel lussuoso appartamento, proprio Tortorella esclama: “In fondo il ‘signore’ si distingue per questo: c’ha la passione delle cose inutili”. In questa frase troviamo la chiave del film, tratto da due racconti di Moravia, con la sceneggiatura dei grandi Cecchi D’Amico, Age e Scarpelli e interpreti strepitosi, ma che alla sua uscita fu un insuccesso commerciale. Anche la critica fu tiepida, lodando gli interpreti ma giudicando il film non interamente compiuto per la struttura episodica diseguale.

La definizione di “favola di Capodanno” per descrivere Risate di gioia e l’enfasi posta sul ritorno del duo Magnani-Totò, con le perplessità dell’attrice a riformare una coppia da Rivista pochi anni dopo la vincita del Premio Oscar e la sua ossessione per non apparire così “trucibalda” come gli sceneggiatori l’avrebbero voluta, hanno oscurato l’indagine del film sul consumismo degli anni del boom economico. Quella “passione delle cose inutili”, appunto, che domina le sfere del pubblico e del privato rappresentate nel film.

Completamente ambientato nella notte di Capodanno, con l’eccezione della sequenza finale sul Lungotevere, Risate di gioia mostra, fin dai titoli di testa, uno spazio urbano illuminato dai neon delle vetrine dei negozi, dei grandi magazzini del tempo come la Standa e delle pubblicità commerciali. Curiosamente, in contrasto con la sequenza festosa dei titoli di testa, la macchina da presa entra subito dopo nella modesta casa di Alfredo, guidatore di metropolitana che ritornerà per una breve sequenza nella parte centrale del film, mentre il capofamiglia si prepara per andare al lavoro.

Si instaura subito una struttura narrativa basata sull’antitesi tra desiderio (festa) e sua negazione (lavoro) che è il tratto distintivo di tutto il film: Tortorella invitata dagli amici per poi essere scaricata, Tortorella e Infortunio che ottengono un tavolo nell’esclusivo locale dove improvvisano un numero da Rivista ma dove non possono rimanere perché sono senza soldi, Lello che mostra interesse a portare a letto Tortorella solo per rubare “le cose inutili” dell’appartamento dei tedeschi.

Sia i luoghi pubblici che la casa privata comunicano ai tre protagonisti le promesse del benessere per negarle immediatamente. La stessa chiesa dove si conclude la nottata di Lello, Infortunio e Tortorella non è l’occasione di un’esperienza spirituale ma di un’ulteriore mercificazione dello spazio e di un ennesimo, per quanto improbabile, tentativo di furto.

In un film dove la nottata è vissuta come un giro picaresco attraverso le promesse del benessere e la mobilità incentivata dai mezzi di trasporto della modernità (la stanza in affitto di Infortunio sopra la Stazione Termini, la metropolitana, le macchine e i taxi), la conclusione, con l’uscita dal carcere di Tortorella su un Lungotevere assolato e spoglio, dove l’unico bene di consumo disponibile è un ombrello e non ci si può permettere il taxi, si configura come la negazione finale delle speranze di soddisfare la passione delle cose inutili.