Una recensione di Chiamami col tuo nome sosteneva che la regia di Guadagnino l’avesse salvato dall’essere un film “alla Ivory”. Partiamo da qui, dal fatto che James Ivory, dopo il successo degli anni Novanta, sia diventato spesso un sinonimo di stile laccato, di riduzioni inamidate di classici della letteratura, di raggelata freddezza decorativa. L’Oscar vinto a novantaquattro anni per la sceneggiatura tratta dal romanza di Aciman, l’omaggio e il premio che gli è stato attribuito alla Festa del cinema di Roma e il suo nuovo (bellissimo) documentario, A Cooler Climate, ci permettono di compiere una ricognizione nella vita e nella carriera del più inglese dei registi americani, come ha detto qualcuno.
Per inglese, infatti, viene spesso scambiato, quando invece americano Ivory lo è in toto, e non dell’America ‘europea’ del New England, ma dell’assolata California dove è nato e ha studiato, dell’Oregon profondo dove è cresciuto. Il più personale dei suo film è Mr. & Mrs. Bridge (1990) (adattamento di due bellissimi romanzi di Evan S. Connell, recentemente ripubblicati da Einaudi): storia di una coppia americana (Paul Newman e Joanne Woodward, nella loro migliore interpretazione ‘di coppia’) anagraficamente non lontana dai genitori del regista. La provincia che racconta, il suo perbenismo asfissiante e la sofferenza e la solitudine che nasconde gli sono ben noti, come noti devono essergli i tentativi dei figli di fuggire, visto che il confronto generazionale è impossibile.
La fuga del giovane Ivory è sotto la spinta del cinema e dell’arte, e lo porta a Venezia e poi in India, dove realizza i suoi primi cortometraggi. Si rafforza qui il suo sentirsi a metà tra una cultura e l’altra, tra un Paese e l’altro, tra una fase e l’altra della vita e della Storia. Ed è questo che lo mette in contatto e in relazione con le altre imprescindibili parti della sua avventura cinematografica, Ismael Merchant e Ruth Prawer Jhabvala. Un indiano musulmano che sogna gli USA, un’ebrea tedesca che vive in India. E lui, Ivory, un cattolico americano affascinato dal mondo.
Il rapporto con Merchant si trasforma anche nel legame sentimentale di una vita. Si conoscono nel 1961 e insieme decidono di creare una casa di produzione e di trarre un film dal romanzo d’esordio della Jhabvala, The Householder. Lei è restia: quando Merchant le telefona finge di essere sua suocera. Ma il film si farà, perché dire di no ai due (e in particolare al suadente produttore indiano) è molto difficile, e sarà lei stessa a scriverne la sceneggiatura. È l’inizio di una collaborazione lunghissima che durerà per tutta la vita. L’India è il punto di partenza e il centro dei loro primi lavori, da Shakespeare Wallah (1965) ad Autobiografia di una principessa (1975): lo sguardo è post-colonialista, il filtro quello della cultura europea. Già da qui l’interesse di Ivory si fa chiaro: ad attirarlo sono i mondi in dissoluzione, le ultime tracce ormai solo di facciata di una realtà sociale in mutamento e già passata, le onde che si agitano sotto la superficie delle regole vuote a cui quei mondi sempre più sbiaditi restano disperatamente attaccati.
L’incontro decisivo è con due scrittori, per motivi diversi, ‘sull’orlo’ di un mondo e di un’epoca. Uno è Henry James, anche lui americano con un fascinazione per l’Inghilterra: Gli europei (1979), I bostoniani (1984) e The Golden Blow (2001) trattano del rapporto tra vecchio e nuovo mondo, dello scontro tra un'Europa raffinata e corrotta e un'America concreta e puritana, alla quale si sovrappongono drammi e tensioni interiori. L’altro è Edward Morgan Forster, inglese del Bloomsbury group sedotto dall’India (il grande film mancato di Ivory è sicuramente l’adattamento di Passaggio in India, realizzato poi da David Lean). Camera con vista (1985), Maurice (1987) e Casa Howard (1992), raccontano di classi sociali rigidamente separate e imbrigliate nelle loro regole che non riescono a parlarsi, che non si ascoltano, che non si capiscono.
Il film della sintesi è Quel che resta del giorno (1993), adattamento del romanzo di Kazuo Ishiguro (altro autore di confine, sospeso tra diverse culture) storia senza salvezza del maggiordomo Stevens e del suo amore inespresso e inesprimibile per la governante Miss Kenton. È Ivory all’ennesima potenza: c’è il rapporto tra classi (il padrone è James Fox, lo stesso de Il servo loseyano, e la sceneggiatura, prima di finire nelle mani della Jhabvala, era stata scritta da Pinter per Mike Nichols), il mondo sospeso tra le due guerre, i sentimenti chiusi, compressi, schiacciati dal dovere e dalle convenzioni. Basta vedere come Ivory usa la grande casa di Darlington Hall trasformandola in personaggio, come riesce a tratteggiare una passione trattenuta e tutta interiore (e quello che riesce a ottenere da Anthony Hopkins e Emma Thompson la dice lunga anche sulla sua abilità di direttore di interpreti), per rimandare al mittente le accuse di formalismo che gli piovono addosso. La forma in Ivory è un tema, non ha niente a che vedere con la vuota maniera.
L’ultimo film da regista l’aveva firmato nel 2009, Quella sera dorata, dal romanzo di Peter Cameron. Un film crepuscolare, che suona già come un testamento. Merchant è morto nel 2005, Jhabvala nel 2013. La sua carriera sembrava finita e invece, a sorpresa, arriva l’Oscar per Chiamami col tuo nome, racconto di quell’età, l’adolescenza, che è inevitabilmente di mezzo, sospesa, piena di sottintesi e di incomprensioni, Anche qui la passione per l’arte, che pervade tutto il suo cinema, diventa per il protagonista, americano in Italia, parte del sua scoperta di sé. Ha detto che se fosse stato lui il regista avrebbe insistito per il nudo integrale: sembra una polemica pretestuosa ma rievoca il rigore, e il coraggio, di un cinema profondamente onesto e assai più sconvolgente e meno rassicurante di quanto non si ami pensare (una testimonianza: il protagonista di Weekend – 2011 – di Andrew Haigh ricorda la scena del virile bagno al lago di Camera con vista come il momento cruciale della sua iniziazione omosessuale). C’è anche questo, nel cinema di Ivory: non regista freddo ma regista della freddezza, che ha fatto delle passioni spente, della comunicazione impossibile, il centro della sua riflessione, e che insieme ai suoi due storici collaboratori, ha filtrato nell’arco di sessant’anni l’immaginario di tre continenti.