Se negli anni Cinquanta Sidney Poitier e Harry Belafonte avevano portato a Hollywood i sentori del cambiamento sociale e culturale rappresentato dal Movimento per i Diritti Civili, il cinema indipendente bianco statunitense del decennio successivo pone al centro della narrazione i problemi dell’America contemporanea e in particolare quelli legati alla scottante questione afroamericana, rivoluzionando al contempo l’iconografia a essa connessa.

Ombre (John Cassavetes, 1960), L’odio esplode a Dallas (Roger Corman, 1962), The Cool World (Shirley Clarke, 1963) o Nothing but a Man (Michael Roemer, 1964), mettono in luce gli aspetti peggiori del paese in merito alle questioni razziali. La pratica del passing cui i neri dalla pelle più chiara sono portati a ricorrere per raggiungere migliori condizioni di vita (Cassavetes), i difficili rapporti interrazziali (Corman), la realtà dei ghetti dove giovani gang si scontrano nella consacrazione del mito “pistola-denaro-potere” (Clarke), danno così voce a una condizione poco conosciuta, osservata con l’occhio attento e indagatore che il cinema, quando vuole, sa usare. “Il pubblico vedeva protagonisti neri chiedere un’occasione per realizzarsi nei propri termini senza dover vivere secondo gli standard bianchi. Dietro la loro placidità esteriore, mostravano la maturazione di un grande spirito militante” (Donald Bogle).

In questa prospettiva la pellicola di Roemer fa un ulteriore passo avanti. Ispirata dal clima di odio e violenza di cui il regista ebreo è stato vittima durante la persecuzione nazista, Nothing but a Man si incentra sulle tribolazioni del giovane operaio ferroviario nero Duff, intento a difendere la propria dignità di uomo e di nero in una cittadina razzista dell’Alabama diviso tra il lavoro, l’amore per la moglie e il difficile rapporto con il padre alcolizzato. La narrazione si muove così su un doppio binario, non solo mette in evidenza gli atteggiamenti ostili dei bianchi, ma anche quelli ottusi della sua comunità che alimentano chiusure e conflitti che inevitabilmente minano l’equilibrio interno. È il caso dei rapporti generazionali tra Daff e il padre ancor di più col padre della moglie: uno ateo, l’altro fervente predicatore che critica e ostacola il legame tra i due giovani in nome della fede e del figlio illegittimo di lui avuto da una precedente relazione.

Roemer rifiuta così non solo l’immagine asessuata del nero alimentata da Hollywood fino a qualche anno prima, ma mette in evidenza la completa maturità del protagonista capace finalmente di scegliere e di volere, intenzionato a ricostruirsi una vita attraverso un rapporto sano e costruttivo con una donna diversa ma non per questo incompatibile. “Non sarà facile, piccola, ma andrà tutto bene”: nella battuta finale che rivolge alla compagna c’è la determinazione di una nuova generazione, capace di assumersi responsabilità, ben consapevole che la strada per la propria determinazione è ancora lunga a venire.

Questa coscienza si farà ancora più radicata tra gli afroamericani negli anni Settanta dopo la morte di Malcolm X e Martin Luther King Jr. e la rapida affermazione dell’ideologia militante del Black Panther Party. Se il black cinema trasferiva lo smarrimento e al contempo la nuova concezione di sé data dai princìpi identitari di orgoglio e potere nero attraverso le discutibili immagini della blaxploitation, il cinema bianco osservava questa realtà in evoluzione con sempre maggior attenzione e coinvolgimento. Fortemente influenzati dal documentario e dal cinéma vérité francese, il docu-film Bushman (1971) di David Schickele ed Eldrige Cleaver (1971) di William Klein rappresentano due degli esempi più significativi di questo periodo. Il primo, sull’inserimento nel contesto statunitense di un giovane docente nigeriano trasferitosi per lavoro in America, rilegge con ironia e leggerezza il conflitto interiore degli avi africani lontani dal loro paese, attraverso l’esperienza del razzismo e dell’esotismo associato alle proprie origini. “Per la prima volta nel cinema americano, un africano istruito chiarisce in modo semplice la sconcertante inettitudine della società americana a vivere umanisticamente” (Albert Johnson). Concetto espresso con ben maggiore evidenza e partigianeria nel film di Klein, una lunga intervista al discusso e controverso Ministro delle comunicazioni del noto movimento militante nero durante un forzato soggiorno in Algeria dopo essere scampato a una sparatoria. Un compendio del pensiero delle Pantere Nere dalla bocca di uno dei più polemici rappresentanti.

Ex bandito, galeotto e giornalista, Cleaver espone con lucidità la visione marxista del Partito, volto a creare una forza panafricana che contribuisca all’emancipazione nera dentro e fuori gli Stati Uniti secondo il modello delle lotte di liberazione anti-coloniali dell’Africa coeva. Tra dibattiti, comizi e conversazioni con intellettuali e militanti locali, il centro del pensiero del ministro è sempre la realtà della sua nazione, divisa tra pensiero capitalista e una necessità di rinnovamento interno dove l’afroamericano assume un ruolo essenziale. Potenziale ago della bilancia, assunta piena coscienza di sé e del proprio ruolo sociale, potrebbe cambiare radicalmente il paese ribaltandone l’ordine costituito e le sue rappresentazioni istituzionali. “Quando ci si rende conto che questo non va bene e non lo si accetta più, cosa si deve fare? Io non l’accetto, non devo accettarlo e ho il diritto di insorgere. E non è solo un mio diritto, ma anche un dovere”. La rivoluzione era già in atto e il cinema la stava documentando.