“Una rivoluzione dal corto respiro”. Così vengono indicati dal critico italiano Lino Micciché gli anni Cinquanta della nostra cinematografia rispetto al momento neorealista. Come in un singhiozzo, il racconto cinematografico, dapprima lineare, subisce delle frequente interruzioni fino a frammentarsi. E’ l’ingresso del cinema italiano nella modernità, che da lì a poco avrebbe preso il nome di “commedia all’italiana”.

Giocando a Guardie e Ladri con il Neorealismo, Mario Monicelli congeda l’Italia dalle memorie della guerra. Tra sorpassi, divorzi e armate, si ritrova con i “soliti noti” (Age, Scarpelli, Risi, Steno) a rappresentare la realtà del paese attraverso un genere che dava l’idea di popolo, grazie alla naturalezza stessa dei personaggi che possono fallire, che non appartengono all’universo della maschera, ma a quello della verità. Il ritmo da tenere è humor e amarezza, vitalità e patetismo. A dirigere l’orchestra, che si accorda ai toni ironici della commedia, è l’argomento serio. Le condizioni e i conflitti della classe operaia ambientati nelle grandi città del Nord Italia ne sono un esempio.

È un esempio naturale accostare il nome di Ugo Tognazzi nella stagione dei Gassmann e dei Mastroianni, delle Vitti e delle Melato, marchio di fabbrica tra gli “operai qualificati” di questo romanzo destinato a diventare popolare. E di Romanzo Popolare, film del 1974, Tognazzi è l’operaio Giulio Basletti di anni 51, mandato in trasferta dalla nota azienda meccanica italiana milanese, la Innocenti, a Montecagnano (Avellino). Durante il soggiorno meridionale, in mezzo a gente semplice e schietta, Giulio si ritrova ad essere marito della diciannovenne figlioccia Vincenzina, una bravissima e lanciata Ornella Muti, che metterà alla prova l’apertura mentale e moderna del sindacalista del Nord.

È infatti l’arrivo del terzo protagonista, il poliziotto meridionale Giovanni Pizzullo (Michele Placido), a far emergere i tratti salienti di questa commedia e la versatilità attoriale di cui è padrone Tognazzi, più scatenato che mai, tanto da rivederlo in vere proprie moviole durante la pellicola, con un linguaggio calcistico-sportivo, non a caso, fornito da Enzo Jannacci e Beppe Viola.

“Siamo negli anni 70”, dice Giulio al compagno di sindacato (meridionale) che non accetta il fidanzamento acerbo della propria figlia con un ragazzo poco raccomandato, “è trent’anni che stai a Milano. Ti abbiamo dato un lavoro, un’educazione settentrionale e al momento della verità, salti fuori con la violenza?”

“La violenza è sempre da rifiutare”, dichiara il lavoratore ormai milanese, facendoci già intravedere una classe operaia sul viale dell’omologazione appagata dal frigo, la TV e la Fiat 750. Alla gelosia, invece, è concesso esplodere in maniera violenta, anche se sono gli anni dell’emancipazione e non c’è comprensione che tenga nello scoprire l’adulterio da parte dell’attempato Giulio, che non è il solito operaio cupo con la bicicletta. “Vuol bene alla fabbrica”, come canta Jannacci nella colonna sonora, ne sa riconoscere il fumo distinguendola dalle altre, ma non si lascia ingoiare da essa, bensì dalla malinconia di un amore finito e da una macchia sull’onore mai andata.

“Uè! Nixon! Giù le mani da Cuba!”