Clémentine Delait è stata, a cavallo fra fine '800 e inizio '900, la più famosa “donna barbuta” di Francia: invece di nascondere vergognosa il proprio irsutismo, lo ha esibito orgogliosa dapprima nel café gestito con successo assieme al marito, e poi sempre più su larga scala sino a diventare una vera e propria celebrità del suo tempo. La regista Stéphanie Di Giusto, dopo la ballerina Loïe Fuller di Io danzerò (2016), prosegue la sua ricognizione fra donne audaci e irregolari della storia con Rosalie, semi-biografia in costume chiaramente ispirata alle vicende di Delait.

L'eroina del titolo, debitamente rasata in volto e coperta per il resto dai vestiti, viene data in sposa dal padre all'ignaro oste Abel, il quale solo la prima notte di nozze spogliandola scopre il segreto della novella coniuge. Ingannato e inorridito si allontana da lei, che però col tempo dimostra di avere le idee ben chiare su come sfruttare le proprie singolari caratteristiche per procacciare clienti allo stanco locale di campagna, con gli abitanti del villaggio attratti e sconcertati al contempo.

È in fondo un coming of age questo racconto di una giovane donna insicura, eternamente tenuta nascosta dal padre, che prega i santi di farla accettare dal futuro marito, la quale si ritrova a dover definire da sola il proprio destino e decide di abbracciare con fierezza la propria natura, tanto da arrivare a farsi fotografare in pose lascive sorridendo maliziosa sotto i baffi e la barba.

Ma la primordiale eterofobia degli esseri umani è lì che cova sotto la cenere, e per quanto Rosalie sentenzi ragionevolmente che, dato che gli altri vogliono vederla come un fenomeno da baraccone, allora tanto vale guadagnarci sopra, è proprio quando da semplice oggetto dello sguardo altrui si trasforma in soggetto trionfante, dietro il bancone di un locale sempre pieno, che le cose per lei cominciano ad andare male.

Come in un'altra acutissima parabola di psicologia sociale, Edward mani di forbice di Tim Burton, anche qui la diversità non dà luogo a un banale rifiuto, ma capiamo come appena dietro l'apparente accettazione ribolla un terrore (anche dell'attrazione verso di lei) che non vede l'ora di attribuire a Rosalie delle colpe. E di nuovo, come in Burton, è la persona amata che dapprincipio non nasconde la propria paura istintiva, per poi abbracciare il sentimento in maniera profonda e reale.

Più che dalle parti de La donna scimmia di Marco Ferreri, abusata in ogni modo possibile, siamo vicini a Lezioni di piano di Jane Campion, peraltro con un finale “acquatico” talmente sovrapponibile da far sospettare la citazione voluta (anche le musiche sono altrettanto curate, con la bella colonna sonora di Hania Rani).

Di Giusto, anche co-sceneggiatrice, porta avanti il suo progetto poetico col giusto bilanciamento fra affermazioni decise e suggestioni intriganti, accarezzando Rosalie con luci morbide e seducenti e disvelandone pian piano il corpo senza morbosità ma con sottile suspense (che non è forse la forma più eminente di seduzione da grande schermo?).

Resta da capire l'effettiva necessità di scegliere un'attrice bellissima come Nadia Tereszkiewicz – indubbiamente molto brava nel ruolo – per argomentare della potenza erotica di Rosalie, mentre Benoît Magimel, vista anche la recente prova ne Il gusto delle cose, si candida definitivamente (e insospettatamente) a principe azzurro del cinema romantico d'auteur.