Nessun triangolo amoroso, nessun regista in crisi artistica, nessun’adunata familiare natalizia in una casa grande e ricca. Arnaud Desplechin, sessant’anni il prossimo ottobre, ha atteso di sentirsi maturo come uomo per dedicarsi da regista ai temi della povertà e dell’emarginazione, inediti nel suo cinema, ma diventati cronaca quotidiana nell’Europa della crisi economica, ora sulla soglia di un altro tracollo dai contorni indefinibili. La sua città, in Roubaix, una luce nell’ombra (in uscita a settembre dopo le anteprime estive), è teatro al pari di molte altre di un crescente disagio sociale cui si accompagnano degrado e criminalità di strada, per i quali il regista sceglie un’iconografia di vicoli, tetti e usci che fanno pensare alla Limerick di Frank McCourt o alla Londra di Charles Dickens.
A tratti sembra di sfogliare Le ceneri di Angela o Canto di Natale mentre si assiste alla sua ultima opera, finalmente distribuita in Italia dopo la presentazione al festival di Cannes nel 2019. E in effetti è un personale canto di Natale il suo, ambientato nei giorni di fine dicembre, durante i quali la squadra del commissario Daoud è impegnata su tanti casi dal comune denominatore: protagonisti sono gli ultimi. Un canto misericordioso, allora, come suggerisce il titolo inglese del film, Oh, Mercy!, se vi troviamo un barbone che denuncia un tentativo di incendio ai suoi danni, una ragazza scappata dalla casa dei genitori e dalle sue strane dinamiche, uno schifoso stupratore di minorenni da identificare, un’anziana uccisa nel suo letto e le sue due giovani vicine di casa, Claude e Marie, che forse conoscono l’identità dell’assassino.
Di notte, al buio, nella città che sa di palude ed è una bolla di umidità come di miseria, Daoud conosce tutti e ascolta tutti, indiziati di reato e colleghi appena arruolati come il sorridente Cotterelle, che non ha mai visto un omicidio. Intuisce situazioni e caratteri alla svelta, e alto com’è si slancia naturalmente su chiunque gli giri intorno. Rassicura con la sua voce paziente, modi di spontanea umanità e quegli occhi caldi che sono la prima cosa che vediamo di lui, riflessi nello specchietto retrovisore della sua auto nella prima scena del film. Studia e indaga anche Marie e Claude, portate in commissariato per un lungo interrogatorio, e immagina partecipe il loro passato, indovinandolo.
Un tempo che ha fatto di Marie un passerotto smarrito, dalle movenze infantili, avvolto da un maglione sudicio e deforme, e della bella Claude, sfiorita in uno sguardo di durezza, un monolite trincerato nell’ostinazione di chi teme di perdere quel poco che le è rimasto. Proprio nel serrato confronto con le due ragazze e nel successivo spostamento con loro nella casa dell’anziana vicina di casa, Roubaix, una luce nell’ombra conosce un protratto, emozionante vertice espressivo. Potenza della capacità di Desplechin di dirigere gli attori e della sua sensibilità di scrittura e messa in scena, sulla cui origine, al di là del talento dell’autore, abbiamo un’ipotesi.
Come già in Jimmy P., film diretto nel 2013 su un nativo americano, diseredato anch’egli a modo suo, Desplechin manifesta anche qui una genuina fiducia nei rapporti alla pari fra persone che alla pari non sono, nella forza del dialogo e nelle possibilità infinite che questo può e sa aprire. Là c’erano un veterano di guerra dagli strani comportamenti e il suo psicoterapeuta, qui una galleria di emarginati e due ragazze in sofferenza e il loro commissario. Il lavoro di Daoud, quello di Desplechin, è essere convinto che, se qualcosa può salvarci, questo sono le relazioni e lo scambio fra persone, e che un cambiamento di qualsiasi realtà ìmpari passi sempre dalla condivisione delle reciproche storie priva di giudizi.