Oltre ad essere un triangolo amoroso non immune all’esperienza dell’odio, Sabrina è anche un quadrilatero in cui Billy Wilder flirta coi tre protagonisti, al netto dei terribili rapporti sul set con Humphrey Bogart – e tuttavia l’atteggiamento contrariato del divo finisce per essere la cifra fondamentale del represso, romantico, indurito Linus, un tipico deluso wilderiano che immaginiamo abbia molto del disincanto del regista. Più felice la triangolazione con gli altri due. Uno è William Holden, che deve molto al regista, e più dell’Oscar per la carogna interpretata nell’audace Stalag 17, è Viale del tramonto a determinarne l’incarnazione di un desiderio talmente immorale da condurre alla morte (reale o no, Fedora docet). Qui la sua splendente immagine da biondo americano vincente sembrerebbe negare qualcosa di perturbante.

Seguendo le logiche della commedia hollywoodiana, sarebbe naturalmente destinato ad Audrey Hepburn. Aristocratica inglese che interpreta un’umile americana mandata a Parigi per raffinarsi, è la cometa dell’incanto improvviso di un’Europa post-bellica sofisticata ed elegante, ultima rappresentante di un mondo rimpianto dall’esule Wilder. Giovanissima, per quanto non come la young adult Ginger Rogers dello spudoratissimo Frutto proibito, più scatenata di Audrey nel disvelare l’attrazione degli uomini maturi verso le ragazze…

Insomma, Sabrina, la figlia dello chauffeur, ama David, il secondogenito dei padroni; dopo che Cenerentola è rientrata da Parigi dov’è diventata donna, il sentimento sembra finalmente corrispondere. L’amore trionfa contro il classismo. Tutto è bene quel che finisce bene? Proprio per niente. Perché, come scrive Franco La Polla, Wilder è un autore triste, “uomo giusto che non perdona al mondo di essergli diventato odioso dopo un intuibile amore finito male… come un bambino innamorato del mondo, si è ritrovato cinico”.

E allora no, David non merita Sabrina. Non può essere bello, seducente, facoltoso, fortunato, scansafatiche, opportunista e per giunta avere anche lei (e in realtà sarebbe promesso ad una del suo rango). Il celebre gag dei bicchieri rotti nelle tasche è la più sapida vendetta del regista, che a quel punto, mentre si tuffa beffardo in languidi chiari di luna, patrocina la coppia più improbabile, spingendo Sabrina verso il riottoso e stagionato Linus. Un divario anagrafico che si ripete nell’ancora più teorico e lubitschano Arianna, dove Hepburn amoreggia con Gary Cooper.

Sabrina è anche un’autobiografia metaforica di Hepburn: l’ascesa di un’attrice nuova e straniera che conquista la terra dei sogni, la principessa straniera a Roma qui declassata pur di garantirle – per via parigina – la favola che merita, la scalata alla società. Ma non quella presidiata da Holden (versante bella vita) e Bogart (sponda affari), corpi di un mondo che si sta restringendo, destinato a decadere: quell’aristocrazia borghese americana che Sabrina osserva come una spettatrice sul ramo dell’albero e di lì in poi rimessa in scena principalmente in melodrammi familiari. Audrey s’innesca nel sistema per sovvertirlo con gentilezza, innestare dosi di finzione diverse rispetto a quelle attese, proponendosi come altra da sé per mettere in crisi lo status quo. C’è l’happy end, tranquilli: ma quanta malinconia in un amore nato sulle ceneri di un altro?